The Dirtbombs
Party Store
Se un pezzo come Bug In The Bass Bin l’avessero inciso i Flaming Lips, fiumi di elogi sperticati avrebbero – giustamente – inondato le pagine di testate musicali e forum: che padronanza comunicativa, quanta estasi e quanto tormento in questi solchi, lo streamofconsciousness pazzoide degli autori di Telepathic Surgery è unico al mondo, Wayne Coyne = Dio.
Il brano in oggetto è la sesta traccia dell’album Party Store, il quinto (se non contiamo l’antologia del 2005 If You Don’t Already Have A Look) dei The Dirtbombs, garage band americana di Detroit capitanata dal leggendario Mick Collins. Un disco di cover che omaggia la scena techno detroitiana degli anni ’80 e ’90, un vero e proprio atto d’amore verso una musica, ma prima di tutto una città, da sempre vera anima di tutti i progetti e le reincarnazioni del buon Mick (dai Gories in poi, titolare di almeno quattro ragioni sociali esclusi i Dirtbombs). Che Collins adori appropriarsi di brani altrui non è certo un mistero, un numero abnorme di artisti lontanissimi tra loro sono stati sottoposti alle sue cure (dagli Sparks agli INXS, Yoko Ono, Brian Eno, i Bee Gees…), tanto che per ritrovare nella discografia dei Dirtbombs un’ulteriore raccolta di cover è sufficiente guardarsi indietro dieci anni, quando i nostri pubblicavano Ultraglide In Black, rilettura di brani funk, soul e r’n’b di un trentennio prima.
Bug In The Bass Bin, dicevamo, è il vero cuore pulsante di Party Store, non soltanto per via della sua mole imponente – ventuno minuti e rotti, praticamente metà disco – e per il fatto di essere l’unica suonata e registrata in presa diretta, ma anche perché incarna alla perfezione lo spirito visionario che permea l’intero lavoro: destrutturare, raccogliere, ricomporre. Cover dell’omonimo 12” del ’96 della Innerzone Orchestra, è un delirio suburbano e collettivo, con gli strumenti che si rincorrono e infine si raggiungono, si scazzottano furiosi per poi giacere inermi. All’inizio, alla fine, nel mezzo, rumori cosmici di autostrade intergalattiche: è lo spettacolo incredibile della Motor City vista dallo spazio!
Il resto del disco alterna brani più interlocutori e spettrali (la voce cavernosa in Cosmic Cars, il battito compulsivo e le saturazioni cieche di Sharivari, la quadratura quasi velvettiana di Alleys Of Your Mind) a pezzi decisamente più sguaiati e dance-oriented: penso alla splendida Good Life, dal soul contagioso, e all’orgia strumentale di Jaguar, la migliore dell’album per impatto e coinvolgimento. Sull’altro piatto della bilancia, gli episodi meno riusciti: il sabba ossessivo di Tear The Club Up, la più rave del lotto, e la sterile coda sintetica di 謎のミスタ-ナイソ, poco più che innocuo congedo finale.
Passo avanti rispetto al disomogeneo We Have You Surrounded del 2008, Party Store resta un omaggio certamente riuscito ad una scena importante, forse concepito e suonato più di testa che di pancia (tanto lavoro in sovraincisioni e mixaggi) e un tantino ossequioso rispetto alle tracce originali. Aspetto che potrebbe scontentare i fans (sia della scena techno che della band stessa), ma che non mancherà di eccitare l’ascoltatore disinteressato e l’indie festaiolo. Per il futuro, Mick Collins pensa all’eventualità di un disco bubblegum (!) dei Dirtbombs. Appuntamento tra dieci anni. You Are Being Watched.
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