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R Recensione

6,5/10

Black Lips

Underneath The Rainbow

Parlare di maturità può sembrare azzardato per un gruppo ancorato ad un immaginario sonico selvaggio, riottoso, regressivo e mentalmente adolescenziale come i Black Lips. Eppure, di album in album, il lento processo di avvicinamento dal mitologico e viscerale “flower punk” degli esordi verso uno stile più quadrato, ammiccante e rifinito, sulla scia di una propria deviata e trasversale idea di classicità rock, appare sempre più evidente. Prosegue, dopo gli esiti alterni ma tutto sommato positivi di “Arabia Mountain”, la virata pop (nel senso più lato del termine) dei quattro di Atlanta, attraverso la varietà di spunti e il doppio registro di “Underneath The Rainbow”: più agile e leggero nella prima parte, più muscolare ed irsuto nella seconda. E se per il precedente si erano affidati alla mano di Mark Ronson, visibile eccome nell'aura vintage pennellata e nelle modanature 60s, qui risulterà fondamentale il contributo di Patrick Carney dei Black Keys e di Tom Brenneck, quest'ultimo in comune fra i due lavori. Ma è soprattutto il songwriting del gruppo a mostrarsi ancora una volta permeabile alle cure esteriori, giocando sullo spettro appena più sottile ed elastico del genere di riferimento, senza smarrire l'istintiva capacità di arrivare dritto al cuore groovy e melodico della faccenda.

Così si parte giocando di fioretto, con una serie di piccoli dettagli soffusi e mirati che intagliano e ingentiliscono ciò resta della scorza ruvida e sguaiata, come il trillo della sveglia in sottofondo di “Drive My Buddy”, un garage-beat dal taglio quasi british invasion, o il lieve jingle-jangle che titilla le chitarre power-pop di “Make You Mine”. Per non parlare di “Smiling” che gioca felicemente sul contrasto fra l'aria melodica e spensierata dei coretti beat e un testo dal sapore bukovskiano che descrive una notte trascorsa in galera con dovizia di particolari crudi e ridanciani. Tutto questo mentre “Funny”, fra tastiere e accenti psichedelici, culmina in un singalong imperioso quasi dalle parti Dandy Warhols e gli staccati velocissimi di “Dorner Party” cementano una sorta wall of sound ramonesiano. Si slitta leggermente ai margini della carreggiata, su un sentiero sterrato, verso metà, con le movenze country di “Justice After All”, quasi una goliardica “Raw Hide” che sarebbe piaciuta a John Belushi, doppiata dall'ubriaca cavalcata di “I Don't Wanna Go Home”, con quel fischiettare da allegri vagabondi e la distorsione che comincia a farsi sentire, acida e rimbalzante. Da qui in poi il sound si indurisce, si fa più scabro e sulfureo, recuperando, auspice Carney verosimilmente, un efficace equilibrio fra la tradizione rock-blues e l'innata nequizia dissacrante di estrazione garage-punk di Alexander, Swilley e soci: lo testimonia un brano dalla forte impronta sudista, i paludosi e lussuriosi dintorni di New Orleans, come “Boys In The Wood”, arrangiata coi fiati ed esaltata dal ritornello corale, terroso e lascivo come pochi. Gemma del disco, “Boys In The Wood”, resuscita in una veste più matura ed elaborata l'anima sporca e delinquenziale dei Black Lips e introduce un terzetto di brani altrettanto degni di nota: la sferragliante, sgolata, fra Cramps e Troggs “Do The Vibrate”, oltre a “Dandelion Dust” e “Dog Years”, bluesy e allucinate quanto basta, fra gli Stones e il primo Iggy Pop, la seconda in particolare per come si sforza di placcare un improbabile anello di congiunzione fra “Simpathy For The Devil” (la ritmica tambureggiante, gli “oooh oooh” in sottofondo) e “I Wanna Be Your Dog” (il riff tagliente di chitarra, a imperitura memoria dei fratelli Asheton).

Fermo restando qualche momento discontinuo e la generale tendenza a compiacersi un po' troppo (fra un estremo e l'altro), i Black Lips si confermano nel loro genere una delle band più vitali e significative del decennio, una delle poche in grado di evocare, anche di fronte agli occhi dei più increduli, lo spirito del rock'n'roll più primitivo e sotterraneo. E di restituirti nel contempo un piacere fisico palpabile e non passeggero all'ascolto. 

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Voto degli utenti: 5,3/10 in media su 2 voti.
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ThirdEye 3,5/10

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nebraska82 (ha votato 7 questo disco) alle 10:01 del 28 aprile 2014 ha scritto:

carino, ma stanno un po' iniziando ad essere prevedibili. forse al prossimo disco si chiederà un po' più di fantasia.