Crystal Stilts
Alight Of Night
La rinascita indie pop parte da New York, e lo fa in una forma sporca e graffiata che della metropoli ha tutto il sapore e la storia. Se negli ultimi anni a spiccare nello skyline newyorkese sono stati i grattacieli tra indie rock e revival wave, dagli Strokes agli Interpol passando per i National, addentrandosi per le strade più periferiche della Grande Mela, e di Brooklyn in particolare, ci si può imbattere in una nutrita truppa di band pronte a spiccare il volo (Vampire Weekend, The Pains Of Being Pure At Heart, Vivian Girls, My Teenage Stride, Depreciation Guild). Giovani leve crescono.
I Crystal Stilts, dopo l’Ep pubblicato a inizio anno, si confermano con questo debutto sulla lunga distanza come la band più promettente del lotto: la loro mescidanza di garage rock, indie pop, lo-fi, C86 e new wave, non fa girare la testa soltanto per la somma di derivazioni, ma anche per l’estrema godibilità del risultato finale. Che è un ammasso sonoro disturbato e ridondante di distorsioni, nel quale però la voce volutamente catatonica di Brad Hargett, che prende qualcosa dal tono scazzato di Casablancas e moltissimo dall’introflessione nervosa di Curtis, riesce a decorare melodie degne di un twee pop svedese.
E non è un caso se il primo disco a cui viene facile associare questo “Alight Of Night” è l’ultima fatica dei Raveonettes (che scandinavi sono), quel “Lust Lust Lust” che unisce un melodismo alla Pastels a un’esasperazione paurosa del riverbero, da primi Jesus & The Mary Chain. I Crystal Stilts, in più, ci aggiungono un uso insistito dell’organo (che fa di “Prismatic Room”, ad esempio, un pezzo tremendamente Doors) e una ritmica sensuale alla Velvet Underground. Per conferme, basta dare un’occhiata allo stile dell’avvenente batterista, Frankie Rose, scippata alle Vivian Girls sopracitate: la ragazza suona in piedi, privilegia rullante e cassa, ignora i piatti, abusa del tamburello. Per completare la figura le mancherebbe solo un santino di Moe Tucker dentro al reggiseno.
Ciò detto, bisogna uscire dal circolo dei richiami e delle fonti, e sguazzare beatamente tra questi undici pezzi di profondo ed appassionato stordimento. Perdersi nel cantato cupo e torbido di “Departure” (ritmica new wave + chitarra sixties + organo visionario = gran pezzo), farsi ipnotizzare dalle sequenze circolari di “Graveyard Orbit” e di “Spiral Transit” (nella quale è evidente il cantato biascicato e autistico di Hargett, sicché pare che neppure gli americani di decima generazione riescano a distinguere le parole che pronuncia), esaltarsi durante l’intermezzo di armonica che squarcia a metà l’ubriachezza ultra-riverberata di “Shattered Shine”, lanciarsi a capofitto nella deriva trascinante di “SinKing”, e così via, in un attraversamento tutto sommato assai omogeneo, ma mai uguale a se stesso, per quanto lo stile complessivo sia quanto di più 'deadpan' si possa immaginare. Ossia: l’arte di annoiarsi e di godere con la stessa espressione.
È da vedere se il disco reggerà al tempo o resterà come trionfo di una stagione. Ma anche se quest’ultimo fosse il caso, sarebbe poco male: il pop più riuscito è anche fisica incarnazione di un’epoca, meglio se a partire dai suoi aspetti più oscuri. Pronti qua.
Tweet