R Recensione

7/10

Human Eye

Fragments of the universe nurse

Chiamatelo weird-garage, punk della prima ora, shitgaze, rock becero o come diamine volete. Resta il fatto che l’ambito musicale in questione è sempre piaciuto da queste parti. L’idea che la musica non debba essere necessariamente patinata e iperprodotta e che riesca a trasmettere un messaggio di rivolta e ribellione è sempre stata sentita come un’esigenza forte da trasmettere alle smunte generazioni odierne e future che non hanno conosciuto il ’68 o il ’77 e che il conflitto non riescono a percepirlo se non sui libri di storia o confusamente nei tg serali.

Diventa quindi una scelta etica oltre che estetica dare spazio a quella scena che raccoglie band del calibro di Times New Viking, Hospitals, Hunches, Pirahnas, (eccetera) che sembra la degna erede dei vari Pussy Galore, Fuzztones, Mc5, Chrome, Stooges, e compagnia bella. Ossia di quel filone incazzato che ha fatto propri stili come il garage e il low-fi per proporre un anti-conformismo politico, sociale, sessuale o semplicemente lascivo e ironico. La si potrebbe definire l’ala più punk del garage-rock, anarchica e irriverente, casinara e iconoclasta, essenziale e assoluta. Nonchè necessaria valvola di sfogo e di rappresentanza di una realtà probabilmente perenne, quella di generazioni e società disadattate, instabili, insoddisfatte di un sistema non certo perfetto.

Questo è il valore etico della musica degli Human Eye, che loro ne siano o no consci. E il fatto che a questo devastante messaggio si fosse accompagnato un esordio omonimo (2006) di sfolgorante bellezza non guastava certo alla causa ovviamente. Anzi la storia ci insegna che si può essere piromani raggiungendo un equilibrio tra innovazione radicale all’interno di regole “classiche” e radicate. Lungi dallo scadere in tendenze futuriste, dadaiste e in generale avanguardiste si può insomma arrivare a forme di contestazione capaci di unire forma impeccabile e contenuto rivoluzionario (e in questo caso con un contenuto musicale non propriamente idilliaco, sulla scia di capolavori come Velvet Underground and Nico e Fun House).

Composizioni mirabili in scia con questa illustre tradizione non mancano in Fragments: Slop culture ad esempio fonde mirabilmente clima industrial-punk, garage-rock, low-fi estremo, effetti digitali, voce filtrata, chitarre acide e taglienti in stile Chrome, psichedelia corpulenta e ritmo indiavolato. Step into new dimensions è un incrocio pazzesco tra batteria devastante, cantato no wave, tastiera e chitarre cinetiche. Una base ritmica eccellente con tanto di schizzi cibernetici si ritrova anche in Gorilla garden. Lightning in her eyes è invece la “ballata” intesa dagli Human Eye; e poco importa se il riff è rubato dai Replacements dato che il pop caustico e schizofrenico che ne segue è da applausi, così come la chiusura del brano in salsa wave-psichedelica. E infine il brano omonimo che chiude il disco non può non apparire come l’ideale prosecuzione di un discorso avviato dagli Stooges quasi quarant’anni fa con L.A.Blues

Questo prezioso equilibrio non riesce però a mantenersi altrettanto costante nelle restanti composizioni dove l’istinto animalesco e violento prende il sopravvento sull’ispirazione più prettamente musicale. Lo sbilanciamento porta a elevare il disco a trionfo del caos sonico, in una cacofonia a tratti sconcertante per la mancanza di idee che vi sta dietro. Si distrugge ma non si costruisce nulla al suo posto. Se non rumore ovviamente. Muri di feedback e striature sonore nervose e claustrofobiche. Probabilmente Lester Bangs avrebbe applaudito alla svolta mirabile. Il sottoscritto invece non può che sottolineare gli inutili ghirigori fastidiosi cui si fa prendere il gruppo. 

Così Two headed woman appare come una destrutturazione della violenza sonora ma in fin dei conti al di là del fuoco e fiamme appare per lo più una gran caciara priva di spunti musicali. Salimander soft shoez dietro il furore epilettico erede degli Stooges e una versione da Nick Cave punk-noise demolitore sembra non portare in nessun luogo concreto. L’equilibrio torna a riapparire a sprazzi in Rare little creature, efficace solo nell’incrocio tra iconoclastia punk e riff di tastiera indie. Non del tutto convincente invece la roboante Dinosaur bones, così come il terrorismo sonoro di Poison frog people, in cui l’uso dei sintetizzatori crea un effetto claustrofobico di uno spazio chiodato e assurdo in cui regna la legge del più forte.

E allora non si può che piangere all’occasione mancata, perché se una metà del disco appare particolarmente ispirata non si può non scorgere nel complesso una tendenza a voler fare casino per il puro gusto di farlo. Istintive demolizioni teppistiche in stile “no music for you”. Ma di questo se ne può ancora fare a meno. Le nuove generazioni vanno educate, non mortificate e terrorizzate.

 

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