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R Recensione

7,5/10

King Gizzard & The Lizard Wizard

Gumboot Soup

You’ve got muscle, I am made of steel bone, ossia: non è un affare per pigri. Ho capito che i King Gizzard & The Lizard Wizard sarebbero riusciti nella loro impresa ciclopica quando, a Natale, hanno pensato bene di scrivere sulla loro pagina Facebook che “non rimangono molti giorni alla fine dell’anno”. Il che, se ci si pensa bene, è il modo migliore per introdurre in pompa magna il loro tredicesimo “Gumboot Soup”, quinto LP del trascorso 2017, uscito allo scoccare del 31 dicembre (quando si dice auguri anticipati…). Dopo l’opus di musica microtonale (“Flying Microtonal Banana”), la demenziale operetta space-garage (“Murder Of The Universe”), la sgroppata exotic-lounge con Mild High Club (“Sketches Of Brunswick East”) e il poderoso concept kraut-prog in liberissima diffusione (“Polygondwanaland”) arriva dunque il turno del contenitore-di-tutto-il-resto: un full length che raccoglie, per ammissione dello stesso Stu Mackenzie, tutti i brani che per un motivo o per l’altro non sembravano adattarsi alle precedenti quattro uscite. B-sides? Manco per sogno: se “Gumboot Soup” non è il loro disco dell’anno, poco ci manca.

Si fa presto a spiegare l’arcano, che tanto arcano non è. “Gumboot Soup” ha un’anima estremamente eclettica, eterogenea, pluridirezionale: ciò che i capitoli trascorsi, pur diversissimi l’uno dall’altro, tendevano a non essere, semplicemente perché composti su un preciso canovaccio che, in questo caso, manca. Finalmente smarcatisi dagli argini concettuali, i sette australiani scrivono e suonano in totale libertà: un’indipendenza creativa assoluta cui fanno fede i quattro (!) singoli anticipatori rilasciati nelle ultime settimane di dicembre, due doppiette di brani fra loro antitetici e disposti contiguamente in tracklist. Da un lato, “Beginner’s Luck” – surreale racconto ai margini di un tavolo verde – è una squisita gemma di pop psichedelico dal taglio quasi beatlesiano, dove l’aura incantata dei wah e dei flauti fa a pugni con una poderosa (per quanto non invadente) linea di basso: “Greenhouse Heat Death” è un ruzzolare di sgraziata elettricità microtonale, un salmodiare orientaleggiante ai limiti del doom. Dall’altro, “The Last Oasis” è un delizioso apocrifo post-moderno dell’Umiliani pop art (tutto da ascoltare l’impervio salto armonico del ritornello, un colpo da biliardo che mette assieme competenza prog ed esecuzione da canzonetta popolare), cui si oppone la micidiale rasoiata arab-garage di “All Is Known”.

Questo e molto altro, in un “Gumboot Soup” che certifica, finalmente, come i King Gizzard & The Lizard Wizard abbiano coniato un suono solo ed esclusivamente loro: la doppia batteria in sincrono, l’impeccabile interplay chitarristico, le linee vocali a ricalcare il riff portante, la perfetta compenetrazione di ogni sezione strumentale – una cifra divenuta così caratteristica che è impossibile non attribuire loro, anche al primo ascolto, certi spaccati favolistici (l’andamento saltabeccante di “Barefoot Desert”, fra Canterbury e Tame Impala primo periodo, è inconfondibile). Tra mesmerizzanti indianismi kraut (“Muddy Water”) e sinuose serpentine lounge ai confini della chillout (“I’m Sleepin’ In”, cui sarebbe stato bene qualche scratch aggiuntivo, potrebbe quasi essere un pezzo dei Lilacs & Champagne) si insinua poi una tripletta centrale che ha del clamoroso: gli Ozric Tentacles alle porte dell’alba di “Superposition” (con leggero effetto vocoder e backing tracks ad aumentare lo straniamento), il guizzante math-funk di “Down The Sink” (coda in sfumare tra fiati e synth stroboscopici) e, infine, la stritolante giga heavy-psych di “The Great Chain Of Being” (il loro brano più pesante dell’anno).

Tanto e tale eclettismo, s’intende, potrebbe non voler dire poi molto: se non fosse che i King Gizzard & The Lizard Wizard scrivono canzoni di fattura superba, una migliore dell’altra. Lo sprezzo del pericolo della miglior gioventù e il cesello artigianale della miglior esperienza, un amalgama da sogno piombato tra capo e collo a cavallo della più delicata congiuntura di sempre per la musica rock: vorrà pur dire qualcosa.

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