King Gizzard & The Lizard Wizard
Polygondwanaland
Per il quarto giro lungo di giostra dellanno (riusciranno davvero a portarne a casa un altro entro venti giorni, e con il Gizzfest di mezzo appena conclusosi?), gli otto sciroccati dellAussiepocalisse annientano ogni residua forma di concorrenza in ambito comunicativo: il che, detto in parole povere, significa non sbagliare un colpo di marketing che sia uno giacché il portafoglio, si sa, è oggetto prezioso anche per i garage rockers più incalliti. Con sicuramente minor clamore ma non minore acume dei Radiohead di In Rainbows e dei Nine Inch Nails di Ghosts I IV (dieci anni fa: preistoria), i King Gizzard & The Lizard Wizard danno in pasto alla propria fanbase Polygondwanaland nella forma prediletta dalla società liquida, la più nuda e cruda possibile: una copertina-ologramma digitale, un pugno di file ad alta definizione, tutto rigorosamente a costo zero. Stop. Volete loggetto fisico? Fatevelo da voi. Anzi: già che ci siete, aguzzate lingegno, mettete in piedi una vostra etichetta diy, stampate a più non posso il disco su ogni formato possibile (o quasi: la cassetta, parole loro, fa schifo), vendetelo a destra e a manca. Il ricavato lo tenete voi, la pubblicità è tutta nostra. Chiaramente Stu Mackenzie la mette in altri termini, ma ci siamo comunque capiti.
È unidea così semplice e a suo modo geniale che, per qualche tempo, rischia di essere il solo, effettivo argomento di discussione, oscurando il reale valore del seguito di Sketches Of Brunswick East (la portata loungedelica servita col beneplacito di Mild High Club). Un pericolo, ahinoi, tangibile, lunico boomerang concreto dellintera messinscena: a maggior ragione se consideriamo che Polygondwanaland, pur essendo il lavoro più ecumenico dellintera discografia gizzardiana (dodici full lenghts, che dovrebbero diventare tredici con la quinta incognita: mica bruscolini), è unopera organica e vincente, in grado di ripensare le strutture elaborate negli ultimi anni, correggerne il tiro ed aggiustarne i difetti. Come nel recente passato, dunque, Polygondwanaland si srotola in un flusso continuo e mesmerizzante, un torrente di lava kraut in cui si perde ogni netta distinzione tra i singoli brani: rispolvera le scale di quinta, gli appigli arabeggianti, i flauti bucolici, gli intarsi chitarristici; accosta deragliamenti Nuggets a carezze melodiche di comprovata bellezza. Im In Your Mind Fuzz + Quarters! + Flying Microtonal Banana + Murder Of The Universe? In un certo senso sì, ma non solo: Polygondwanaland è lanello più propriamente prog dei Gizzard, il raccoglitore di canzoni dove più evidente emerge la rinnovata perizia tecnica dei melbourniani, la naturale fluidità del loro interplay.
Eccezion fatta per un paio di passaggi arrabattati alla belle meglio (nel quasi-rāga di The Castle In The Air si risente lasettica voce narrante di Leah Senior, mentre Horology è una traccia di raccordo senza grandi pretese), sono svariati i momenti da salvare e ricordare a futura memoria: il decollo retrofuturistico, attorno ad una linea di basso da paura, del suq garage di Deserted Dunes Welcome Weary Feet, il chorus velatamente drammatico di una Inner Cell che avrebbe fatto gola ai nostri Aktuala, le acustiche sconnesse e stonate di Tetrachromacy, lodissea nello spazio profondo (e sardonico) di Searching , le speziature library che aleggiano sulla title track Senza dimenticare per strada, naturalmente, la maestosa Crumbling Castle posta, a mo di abstract, in apertura di tracklist: una suite arab-prog ipnotica e raffinata come un racconto a matreka di Shahrazād, un favellare senza soluzione di continuità che solo sul finale mostra tutte le sue crepe, sgretolandosi in rozzi e parodistici miasmi doom infestati di fuzz.
I titoli di coda con una scatenata The Fourth Color che sembra venire inghiottita da un vuoto ambient, salvo risalire a sorpresa e incendiarsi nella consueta, variopinta bordata garage-noise sono tutto un programma: i Gizzard hanno tutta lintenzione di concludere il 2017 allo stesso livello di come lhanno inaugurato. Alto.
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