R Recensione

6/10

The Apes

Ghost Games

C’è una legge non scritta secondo la quale qualsiasi album garage-rock sarà sempre e comunque migliore rispetto all’ultima cosa che avete ascoltato un attimo fa (a meno che ovviamente non abbiate appena tolto i Nuggets). Eppure non è così facile riuscire ad entusiasmarsi per Ghost games, quarto lp degli Apes, gruppo di Washington in attività dal 1999 dedito al classico ripescaggio di stilemi rock in un mix che pesca tra noise, garage, heavy e psichedelia.

Solite cose insomma, già viste svariate volte in questi ultimi anni, con casi di revival tanto spudorati quanto eccellenti che portano il nome di White Stripes, Black Lips, Comets on Fire, Black Keys eccetera eccetera. Dove sta la novità? Che mentre nel 2001 la critica specializzata si tirava giù le brache per omaggiare la nascita del cosiddetto new rock gli Apes esordivano con un disco (The fugue in the fog) che se avesse avuto le stesse possibilità mediatiche di Libertines, Vines e compagnia bella probabilmente avrebbe spazzato via gran parte del putridume che venne a seguire. Senza strepiti e patemi d’animo gli Apes proseguivano la loro avventura e un pò inspiegabilmente viravano pericolosamente verso il glam e qualche vezzo wave vagamente dark, trovando probabilmente nuovi spunti in gruppi come New York Dolls, Liars, Deep Purple e qualsiasi altra roba dia l’idea di un suono ancora potente ma tendente a una certa concessione verso una forma barocca-teatrale. Ne venivano fuori due dischi (Oddeyesee-2003 e Baba’s mountain-2005) che pur restando su buoni livelli si perdevano in eccessi patinati ed retorici che facevano rimpiangere la genuina purezza primitiva.

Ghost games porta avanti con coerenza la strada intrapresa e resta quindi saldamente imperniato su una base garage-rock, ma il suono ammicca abbondantemente a una psichedelia heavy di derivazione 70s (e non pochi sono i ricordi di Black Sabbath e Wolfmother) e la sua tendenza glam e horror viene ulteriormente portata avanti, con risultati che spesso (Practice hiding, Green grease) fanno pensare a una colonna sonora ideale per un nuovo Rocky Horror Picture Show. L’impressione è però che le atmosfere apocalittiche create soprattutto dalle tastiere di Amanda Kleinman (in maniera tra l’altro impeccabile, bisogna riconoscerlo, Beat of the double e Walk thru walls ne sono un ottimo esempio) appesantiscano eccessivamente l’ascolto e gli conferiscano una carica enfatica talvolta sproporzionata al bisogno (First light, o la più o meno involontaria goliardia dei riffoni di Info ghost).

Non ci sono comunque grosse cadute di stile e l’ascolto rimane sempre su livelli di decenza, offrendo un calibro vario che mischia momenti epici con melodie e passaggi semplici e quasi scherzosi (Dr. Watcher) ad accelerazioni più ruvide e incisive che sfiorano il punk (G.R.F.) o si tuffano nella stagione wave (Which witch wuz o il dark classico di Fade out). E poi c’è il gioiellino Speech reach, in cui meglio si combinano la carica epica del nuovo cantante Breck Brunson, l’organo lisergico della Kleinman e soprattutto i solidi riffoni del bassista Erick Jackson che con una mano molto pesante riesce a nascondere abilmente la mancanza di un chitarrista. Tutto questo non basta a farci amare questo disco garage-rock. E forse era meglio quello che girava prima. Non ci sono proprio più le mezze stagioni. 

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