The Raconteurs
Consolers of the Lonely
Era scivolato via un pò silenziosamente il primo disco dei Raconteurs, supergruppo formato da Brendan Benson, Jack White, Jack Lawrence e Patrick Keeler. Scivolato via non in maniera turpe o degradante, ma neanche lasciando quel senso di poesia mistica come possono fare certi capolavori della musica leggera. Semplicemente scivolato via tra una tazza di caffè e una scampagnata dalla parte opposta della città per fare qualche commissione. Scivolato lasciando in fondo nient’altro che un leggero ricordo di quel bel singolo accattivante che era Steady as she goes e poco altro.
E un po’ si era rimasti delusi da quella prova non così eccellente (ma neanche brutta, piuttosto insipida) offerta da uno dei migliori spiriti rock della nostra generazione: Jack White.
Hai voglia a metterti in testa che il fido Jack non è il leader del gruppo e che i Raconteurs non sono altro che un gradevole side-project che si propone di fare per il pop quello che i White Stripes sono stati per il garage e per l’heavy blues. Hai voglia a metterti in testa che Jack, uno dei migliori chitarristi rock “essenziali” degli ultimi anni, ogni tanto può anche mettere da parte lo strumento prediletto (come aveva già fatto in Get behind me satan d’altronde), abbandonare per un attimo feedback, melodia ruvida, low-fi e buttarti lì un disco pop levigato e pure intelligente.
Hai voglia a ricordare che in fondo è pur sempre meglio di quella collaborazione country con Loretta Lynn che procurò fior fior di sbadigli.
Tutto ciò è giustissimo ma resta il fatto che quando c’è di mezzo Jack White l’attesa sia sempre inevitabilmente enorme. Probabilmente anche maggiore rispetto a quello che sarebbe dovuto. Così si aspettava il nuovo disco dei Raconteurs con una certa ansia e preoccupazione per la possibilità che si finisse, come con Broken boy soldiers (2006) in una spensieratezza eccessiva priva di mordente. Per nostra fortuna l’ascolto di Consolers of the lonely ha provveduto a levare ogni imbarazzo.
Fin dall’iniziale Consolers of the lonely si capisce subito che lo spirito è decisamente meno pop e più rock. La ruvida chitarra di Jack scava un impeccabile solco tra Led Zeppelin e White Stripes con tanto di finale dalle scorie acide. E a confermare la vibrante verve ritrovata stanno il garage popolareggiante e istrionico di Salute your solution, l’apogeo di chitarre di Hold up (con tanto di wah wah) che rinverde divertendo suoni rock straclassici ma sempre giovani.
Inserti rudi e clima da revival ‘70s si respirano anche nell’hard-rock citazionista di Attention, nell’irruente e potente garage-rock in classico stile White Stripes di Five on the five e in These stone will shout, in cui riecheggiano i Led Zeppelin di fine carriera.
Ma Consolers of the lonely non gode solo di una ritrovata ed energica vena rock, bensì sfrutta un maggiore affiatamento tra l’ingombrante personalità di White e quella di Benson, trovando un ottimo amalgama in brani come You don’t understand me e The switch and the spur. La prima è una ballata in cui si fondono il working pianistico di White con i languori Bensoniani creando un brano easy listening in grado di citare classici pop (Beatles) e mantenere una certa raffinatezza. La seconda dopo un’apertura in pompa magna introduce ad una riuscita alternanza tra il minimalismo cantoriale di White e il polistrumentismo del gruppo. In una struttura apparentemente dicotomica improvvisamente a metà pezzo le due anime si fondono in un pastiche che apre a ritmi schizofrenici e frenetici in cui chitarra, piano e tromba impazziscono gioiosamente.
Non mancano episodi più soft come il pop-soul romantico di Many shades of black (episodio a dir la verità insipido nonostante l’infuocato assolo hendrixiano) o come la dolce ballata piano-voce (quasi una ninnananna) Pull this blanket off che gioca tra blues e coralità.
E a conferma della grande varietà del disco si può citare anche il country-blues elettrico di Top yourself oltre a un paio di brani davvero particolari come Old enough e Rich kid blues. Se la prima articola scampoli di prog, violini festaioli, melodiose armonie vocali e un pop low-fi (con esito non eccelso ma divertente) nella seconda la canzone si fa “seria”, per non dire epica, accentuando però le caratteristiche camaleontiche che permettono di svariare tra prog, hard e classic rock, pop e folk.
A chiudere il disco la splendida Carolina drama, in cui un Jack White immerso nella tradizione americana si trasforma in cantastorie e mischia mirabilmente blues, folk, country e classic rock.
Musica del popolo fatta divertendosi per il popolo. Eppure stavolta il livello appare decisamente superiore rispetto a Broken boy soldiers. E la classe di canzoni come questa è lì a confermarlo. E allora nonostante qualche buco qua e là e un'intensità sonora non sempre all'altezza non si può che rimanere soddisfatti del risultato.
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