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7/10

The Sonics

This is the Sonics

Il remoto Nord Ovest degli Stati Uniti è entrato di prepotenza nell'immaginario rock collettivo grazie all’ abbagliante e controversa parabola del grunge tra fine anni 80 e primi anni 90, quando Seattle rubò per pochi anni le luci della ribalta a New York e Los Angeles. Non conta infatti Jimi Hendrix: nato nella città della Boeing e della pioggia, ma presto emigrato per trovare fortuna e imporre il suo talento altrove. Prima di tutto ciò, c’era stata però la classica eccezione che conferma la regola: i Sonics da Tacoma, Washington.

Esplosi nel 1964 con l’incendiario singolo “The Witch”, archetipo di tanto selvaggio garage rock che di li’ a poco avrebbe marchiato la stagione psichedelica a stelle e strisce, venendo poi immortalata da Lenny Kaye nella celebre collezione Nuggets. La stagione dei Sonics non durò a lungo, anche se la band di Bob Bennett fece in tempo a seminare brillanti pepite garage lungo il sentiero dei sixties, con pezzi non meno leggendari come le proto-punk “Strychnine” , “Psycho” e “Cinderella” che hanno ispirato tanti loro epigoni negli anni successivi, dai Cramps ai Fall, per arrivare ai White Stripes. Per non parlare dei corregionali Mudhoney, il cui brano di punta “Touch me I’m sick” rileggeva proprio le veementi sincopi di “The Witch” all’epoca del nascente indie rock americano.

Di tutte le reunion che stanno infarcendo la Senile Oriented Rock scena attuale, quella dei Sonics è giunta inaspettata, visto che l’ultimo parto discografico della band risale al 1967. Ma, in fondo, che male c’è? Quanti cuginetti annoiati dei Black Lips si sono fatti le ossa cantando “some folks like water, some folks like wine, but i like the taste of strychnine” e aspettano con trepidazione di riascoltare gli originali? Jerry Roslin e Rob Lind forse sperano di trovare i soldi per mandare i nipoti al college? Ben venga!

Realizzato da tre quinti della formazione originale, “This is the Sonics” sgrana tutto il sacro rosario garage e r&b. E’ come salire sulla DeLorean di Doc e approdare in una festa liceale in una fredda e piovosa serata di 50 anni fa, riscaldata dal calore blue-collar dei Sonics, nonostante l’attenta produzione di Jim Diamond (proprio i White Stripes in scuderia) cerchi di infondere una patina di modernità. Pezzi scalmanati come “Be my woman”, “Bad Betty” o “I Don’t Need No Doctor” bruciano come allora, tra singulti di sax, frasi d’organo bluesy e chitarre abrasive secondo copione, mentre “Livin’ in Chaos” e “I Got Your Numbers”  sono talmente furibonde che potrebbero passare per outtake dei Nirvana. 

Tra la tante cover, svetta l’omaggio a Bo Diddley, con una tellurica versione della “You can’t judge a boook by the cover” di Willie Dixon resa immortale dal vecchio Bo, a testimonianza che anche i pionieri sanno ricordare chi è venuto prima di loro. Procuratevi orsù questo disco: tra 20 anni non vi vergognerete certo di averlo in bacheca.

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