The Stooges
Funhouse
È il 1970 quando esce Fun House, secondo album degli Stooges, che segue lo sfolgorante esordio The Stooges di un anno prima. Il compito di restare agli stessi livelli era pressoché impossibile, per Iggy e soci. E invece…
E invece eccoci qua a commentare un altro caposaldo del rock. Cercate nella storia e non ne troverete molti di gruppi capaci di sfornare due capolavori di seguito uno dietro l’altro. Gli Stooges ne hanno infilati tre (il terzo, Raw Power, arriverà nel 1973) e poi si sono sciolti. Verrebbe da dire che un gruppo meglio di così non possa fare.
La line-up del gruppo resta la stessa dell’esordio, nonostante lo scarso successo conseguito a livello di pubblico. Quello che riesce davvero di difficile comprensione è capire come abbiano fatto gli Stooges a evolversi così rapidamente da un anno all’altro. Già, perché Fun House è tutto tranne che una replica di The Stooges. Anzi. Ascoltandoli separatamente si nota subito come i punti in comune siano davvero pochi. Iggy Pop ha cambiato completamente modo di cantare, è diventato molto più aggressivo (e già prima non scherzava) e in generale ha lasciato da parte i sussurri e lo stile più posato di pezzi come Ann e We will fall. Qui, moltosemplicemente, urla come un ossesso tutto il tempo, dall’inizio alla fine (la leggenda vuole che alla fine della registrazione del disco gli abbiano dovuto ricostruire artificialemente le corde vocali). Scott Asheton, alla batteria, picchia in maniera devastante. mentre il fratello Ron è riuscito nell’impresa di fare ancora più casino, con distorsioni e feedback sempre più acidi. L’elemento davvero determinante per la svolta sonora è però sicuramente l’ingresso in formazione del sassofonista Steve McKay che aggiunge quel pizzico di anarchia e tocco jazzistico alle allucinazioni malate degli altri elementi del gruppo.
Premetto: dei sette brani che sto per analizzare non ce n’è uno che possa essere considerato “minore”, perciò se pensate che io abbia esagerato con le lodi a breve dovrete ricredervi.
Già, perché se non riuscite a farvi trascinare dallo sporco blues distorto di Down on the street evidentemente qualche problema l’avete. Se non vi esaltate ad ascoltare un Iggy Pop in forma strepitosa che strepita, sibila, abbaia, stride, e balla. Blues è la parola chiave anche per Loose, accompagnata da una mirabolante base sonora che prevede una batteria picchiatrice, un basso istrionico ed un amplificatore sparato al massimo a magnificare gli assoli edi riff devastanti di Ron Asheton. Il tutto mentre l'iguana ci urla in faccia “Well I'm loose”! Assolutamente devastante.
T.V.Eye inizia con un urlo da antologia del rock. C’è tutto in quell’urlo che anticipa l’ennesimo delirio sonoro: c’è la voglia di ribellione, di fregarsene di tutto, di dire al mondo che lui, Iggy, è lì e se la spassa alla facciazza di chi rispetta le regole e vive nel suo beato conformismo, c’è l’istrionismo dell’iguana, c’è la voglia di vivere, di incazzarsi, di sudare, di ballare, di agitarsi, di amare, di scopare, andare sempre al limite fino allo stremo. T.V.Eye è anche un sacco di altre cose: È l’ingresso in un mondo lisergico, acido, isterico, ma soprattutto è il ritmo supersonico e sfrenato di tre strumentisti che sembrano voler fare a gara a chi riesce ad andare più veloce e a tenere di più la nota più alta.
Dirt cambia registro. Iggy per la prima volta parte delicato e tenue, quasi ipnotico. I compagni lo seguono nella versione più distorta e malata del blues-rock. Questo non è più solo garage. Questo è (di nuovo) blues. C’è tutta la purezza e la sofferenza delle dodici battute qui, ma filtrate attraverso le diverse esperienze del garage-rock, di Hendrix, Clapton, Page: insomma, tutto quello che ha significato la rivoluzione musicale iniziata nel 1967. L’aria si fa psichedelica, lasciva, selvaggia. Dirt è un pezzo decadente e soffocante e lascia davvero straniati nello spirito e nel corpo.
1970 mozza il fiato! È la giungla, è il punk, è il boogie, è il rock’n’roll, è il jazz, è il garage, è il rumore, è la MUSICA! Un eroico Iggy strepita come un ossesso arrivando alla fine del pezzo senza più fiato in corpo, inseguito da un assolo di sax semplicemente stratosferico. La rabbia, la violenza, l’istinto animalesco, la sessualità sfrenata e la devastante potenza di Iggy sono tuttuno con l’ennesimo immenso ciclone sonoro creato dai fratelli Asheton e da Alexander. “I feel alright!”, ripetuto ossessivamente nel finale dall'iguana diventa un altro degli inni più famosi del rock.
Funhouse è il seguito ideale di 1970: la batteria continua a picchiare durissimo mentre il basso diventa funambolico, il sax è ormai febbricitante e la chitarra delirante. E' il caos, il delirio completo. L’anarchia ha preso completamente il sopravvento.
E poi arriva L.A.Blues… Ricordate Sister Ray? Ecco, più o meno siamo lì come stile di vita: uno dei punti in cui la musica ha raggiunto i suoi confini esplorativi. L.A.Blues è il viaggio finale di un cammino torbido, fatto di una rabbia, di una frenesia mai concepite prima. Pensavate che Captain Beefheart avesse assolutizzato il rumore e che i Rolling Stones vi avessero provocato ? Pensavate che i Velvet Underground vi avessero scosso e che gli Mc5 avessero velocizzato oltre ogni limite la musica ? Non vi preoccupate, capita a tutti di rimanere sconvolti di fronte a tale pastiche sonoro. Ricordate quello che vi ho detto fino ad ora? Della violenza, della giungla, dell’anarchia e di tutto il resto? Ecco provate a moltiplicare per mille quello che avevate immaginato e otterrete L.A.Blues, il più eclatante caso di stupro musicale della storia.
Il disco è finito gente. Datevi uno schiaffo e tornate a lavorare.
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