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R Recensione

6/10

Waines

Sto

Nella loro instancabile azione diffamatrice, sogliono dire i pettegoli che i Waines, coriaceo power trio voce della Palermo rumorosa, tra i vicoli e nelle piazze, siano i perfetti epigoni tricolori dei ben più noti Black Lips: nella sporcizia vocale, nella solidità traballante della sezione ritmica, nel rifferama killer. Un’ammirazione che quasi si tramuta in aderenza sottocutanea. Voi saprete che le malelingue hanno ragione – affermare il contrario sarebbe paradossale e controproducente: basta avere le orecchie per sentire – e la percentuale di rassomiglianza si accentua quanto più si calca la mano. Ma voi saprete, allo stesso tempo, che le malelingue hanno torto: torto nell’attribuire al loro giudizio la sfumatura tanto negativa che fa gola all’ascoltatore nostrano. Come se essere impeccabili copie degli americani fosse un peccato imperdonabile (perché il beat dov’è nato, nelle risaie vercellesi?) e l’inesistente made in Italy, smerciato in ogni ambito dalla spinta propulsiva dell’enogastronomia, fosse ipotetica garanzia di qualità. Suono del tutto originale quello dei Black Lips, d’altronde: non è vero?

La realtà, senza polemiche? Bene, benissimo fanno Fabio Rizzo, Roberto Cammarata e Ferdinando Piccoli a fare quello che fanno, sull’onda dell’entusiasmo che la trionfale e – apparentemente – inarrestabile marcia dei Mojomatics sta riscuotendo, nella base Triveneto e all’estero. “Sto”, che in palermitano significa “tre”, come il numero dei tuffatori ripresi in pose plastiche sulla copertina, è, manco a dirlo, la loro terza prova studio (sovraincisioni cessofoniche in oscuri garage sotterranei all’ombra della Favorita incluse), interamente autoprodotta, ticket di sola andata che certifica con efficacia la crescita progressiva di un gruppo nato per essere mero stampino di forma altrui, ora proiettato verso la realizzazione di un proprio spazio esclusivo nel microcosmo di una Palermo che acquista sempre maggiore rilevanza sulla bilancia artistica nazionale.

Il disco non parte nel migliore dei modi. Anzi, ad essere sinceri, la prima metà risulta alquanto fiacca. “Turn It On” si regge su un groove impetuoso ma telefonato, a tratti leccato, quasi come se Iggy vestisse magliette a righe orizzontali, invece di sfoderare compattissimi carapaci. “Afrix” gattona per la savana in un delirio di ritmo, strattonata per un lato dal fuzz e per l’altro da una serie di orme acustiche. “Round Glasses” funziona, acida e sincopata, ma stupisce non trovare il nome di Dan Auerbach nei crediti. Persino i due minuti scarsi di “Inner View”, estratto di MC5 che scatena una ridda di chitarre in fuga, fatica a rimanere in testa. Per non perdere del tutto la trebisonda serve una pausa: puntuale, “Morning Comes” pacifica l’andatura a ritmo country, concedendosi lontani riverberi elettrici e ampio respiro internazionale. Basta un niente: ecco che “Sto” si trasforma in un altro lavoro. “Keep It Fast” è selvaggia e tirata, ai limiti dell’hard rock, messa in movimento da straordinarie cerniere chitarristiche. “The Pot” viaggia roots, double nickels on the dime – citazione voluta e dovuta –, sino a concedersi e spegnersi in un gran finale lisergico. “Birds”, infine, si permette il lusso di bersi decenni di southern rock e uscirsene ciondolante, con la testa piantata fra le spalle, come un vecchio redneck con la nostalgia dell’Alabama.

I pettegoli difficilmente daranno ai Waines la palma di nuovo orgoglio italiano. Voi saprete che hanno ragione: su disco la strada da fare non è, ancora, corta. Ma saprete anche che hanno torto: i margini di miglioramento sono, nemmeno a dirlo, giganteschi.

V Voti

Voto degli utenti: 7/10 in media su 1 voto.
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ciccio 7/10

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