Ty Segall
Goodbye Bread
Con la sua frenesia creativa e la sua produzione caotica e sterminata, Ty Segall è l’enfant prodige per eccellenza della scena garage rock/punk della Bay Area. Factotum e polistrumentista, ha al suo attivo 6 dischi a suo nome (3 album e 3 cassette) più una teoria quasi compulsiva di ep, split, compilations, oltre alla militanza, più o meno estemporanea, in gruppi di culto come gli Epsilons, The Perverts o i prime movers Sic Alps. Biondo come un Beck e selvaggio come un Jay Reatard, così ce lo ricordavamo. Estetica garage lercia, vissuta, schizzata e un istinto per la canzone non comune macerato in due minuti/due minuti e mezzo di urla sguaiate e distorsioni mordaci.
Goodbye Bread, settimo della serie personale, segna l’esordio di Segall con una delle etichette più importanti del settore, la Drag City. E dimostra un’evoluzione marcata nello stile e nei contenuti.
Più eclettico, melodico, cantautorale nella scrittura, più terso e curato (per i suoi standard casinisti e lo-fi) nella produzione, il nocciolo garage si contagia di riferimenti sixties all’acid-rock, alla west-coast elettroacustica, alla psichedelia pop e leggera. Sempre nodoso, essenziale, centrato sull’asse voce (sardonicamente strafatta e velata), chitarra (qui sature e scolpite senza rinunciare alla specialità della casa: fuzz e feedback) e batteria - tutte suonate da Segall in persona - ma anche più estroverso negli incisi, articolato nelle strutture, rallentato nei ritmi che, talvolta, servono da rincorsa per brucianti accelerazioni. Neanche avesse scelto di fermarsi all’ideale crocevia fra gli altri due pesi massimi del genereusciti quest’anno: Napa Asylum dei Sic Alps, di cui riprende le vibrazioni/citazioni sixties ma non l’assetto pervicacemente lo-fi, e Arabia Mountains dei Black Lips, per la confezione accessibile ma più fedele alle radici del suono e meno sbilanciata sul versante pop.
La title-track dà subito la misura di questa piccola metamorfosi con lente pennate elettriche e le boccate narcotiche della melodia, imitata dall’acid-rock armonioso di “I Can’t Feel It” e dal ritornello soffice che evapora i saliscendi screziati di “Confortable Home (A True Story). Un filone di songwriting ispirato che trova il suo piccolo capolavoro nella magnifica “My Head Explodes” con la strofa folkish che sembra una variante più rancida e malata del Marc Bolan primissima maniera e il ritornello che esplode, letteralmente, feroce e cariato sul pedale della chitarra. Ma Segall sa variare i registri e aumentare di potenza come nello space-garage spinoso e cantilenante di “Where You Mind Goes”, nei cambi, ora cullanti ora sferzanti, di “I Am With You”, nell’idillio amoroso rosolato e squagliato di “You Make The Sun Fry”, negli intermezzi quasi zappiani che squassano“The Floor” fino a sprofondare, in coda, nel fuzz sabbioso e cocente, nella freakeria pseudo-lennoniana rimescolata in un calderone blues incrostato e arrugginito di “Mr Toad’s Wild Ride”.
Se mai passasse anche dalle nostre parti, sarà un piacere vederlo sul palco dar fuoco a questa pagina di song-book ancora fresca d’inchiostro psicotropo.
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