Bodies of Water
Twist Again
“Si sono dati una calmata” (cit.) è effettivamente la prima impressione suscitata dal ritorno dei novelli sposi Metcalf. Li avevamo lasciati tre anni fa sulle note concitate di “A Certain Feeling”, secondo disco che metteva in luce potenzialità infinite sulla base di un gospel-rock figlio degli Arcade Fire quanto dei Jefferson Airplane. Questo terzo disco della band losangelina (che è in realtà un "duo coniugale" supportato da una nutrita accolita di musicisti più o meno fissi) rafforza l’identità sonora di quel disco ma riesce ad ottenere due risultati: 1) Il distacco dal modello Arcade Fire, ma sarebbe meglio dire dal modello Polyphonic Spree: la coralità (musicale e vocale) rimane elemento fondante del sound dei Bodies Of Water ma si trasforma in qualcosa di più intimo, abbracciando derive “casalinghe” vicine ad altri coniugi noti (Low). 2) La presa di coscienza di possedere un ventaglio di soluzioni melodiche talmente cristalline da rendere inutile (se non dannoso) l’uso di quegli arrangiamenti ricchi così “caratterizzanti” nel disco precedente.
Così, nella misura in cui gli Arcade Fire (che restano comunque una pietra di paragone attendibile) lasciavano viva la radice rock innestandola di sixties e pop, i Bodies of Water riducono al minimo l’impronta rock del loro suono estendendo i propri orizzonti in direzione ora di un country dilatato e “morriconiano” (l’iniziale “One hand Loves the Other”, la maestosa “Open Rhythms”), ora di una versione riveduta e corretta delle orchestrazioni care a Burt Bacharach (“Triplets”, “Like a Stranger”), oppure ancora in esperimenti di sottrazione acustica pericolosi eppure vincenti (“Lights out Forever”, “New Age Nightmare”).
Niente di nuovo, insomma. Pop orchestrale, rock cristiano, retaggi gospel, un po’di Sufjan Stevens qua, un po’ di Dr Dog là, qualcosa dei Fiery Furnaces e i fantasmi dei sixties dietro la finestra. Il fatto è che questi (a differenza di altri) non sbagliano mai una canzone: “My Hip Won’t Let Me”, con i suoi stacchi di chitarra piazzati in mezzo con una solennità sfacciata, sembra davvero uscita da uno di quei dischi del 1967 dei quali “non si può fare a meno”, “Mary Don’t You Weep” riprende quel sapore da “Jesus Christ Superstar” che traspirava anche in “A Certain Feeling” (e quel lavoro di basso da far invidia ai Kiss dei tardi anni ’70) mentre “Rise up, Careful” sfuma di jazz una ballata come se fosse la cosa più naturale del mondo. E poi, piccoli adorabili accorgimenti: i cori di “In Your Thrall Again”, il sax sul finale di “Even With Us”, gli Abba rivisitati di “Like A Stranger”, la tromba funebre di "Lights Out Forever”.
Potevano commettere due errori: ripetersi o farsi prendere dalla smania di cambiare (svolta-synth evitata, almeno questa volta). Sono riusciti a ripetersi senza ripetersi e a cambiare senza cambiare. Vai a capire come...
Tweet