Giardini di Mirò
Rise And Fall Of Academic Drifting
Il rock morì una ventina d’anni fa per mano degli Slint che con “Spiderland” giustiziarono al muro un genere che aveva profondamente segnato il Novecento. L’hard rock e il punk avevano esaurito la loro carica prorompente e gli Slint s’assunsero la responsabilità di dichiarare morto un corpo già esanime ed agonizzante. In Italia l’esempio più vivido ci proviene dai Giardini Di Mirò e dalla loro prima prova di studio, “Rise And Fall Of Academic Drifting” (dopo due EP autoprodotti), otto lunghi pezzi di quello che è stato definito con più o meno fortuna post-rock. Nel sound della band emiliana (sono nati nello stesso paese degli Offlaga Disco Pax) è possibile individuare reminiscenze noise tipiche dei Sonic Youth e lenti passaggi armonici tipici del post-rock nordeuropeo, finanche influenze drone caratteristiche di gruppi più eclettici come i Godspeed You! Black Emperor. Sta di fatto che questo lavoro si colloca certamente tra i migliori del panorama italiano del nuovo millennio.
La storia comincia sulle note di “A New Start (For Swinging Shoes)”, come fosse un annegamento nella noia dei tempi veloci, una spiazzante ma intensa dicotomia tra le genti metropolitane sempre smaniose di recarsi nei propri uffici e l’alienante flemma di chi a questo mito non vuole proprio crederci. Con “Pet Life Saver” (cantata da Matteo Agostinelli degli Yuppie Flu) abbiamo già il primo nocciolo del discorso: un brano che, tra grandi sviolinate ed una batteria in calmo incedere, ci riporta all’essenziale ritrovamento di sé: non c’è qui rimando al buddismo o al confucianesimo ma un attento e dovizioso esame della direzione che volens nolens abbiamo scelto. In “The Beauty Tipe Rider” le chitarre si fanno la corte per esplodere insieme in un commiato freddo e distaccato, quasi fossero due amanti di provincia dalla fedina penale sporca come la pece. Altro grande episodio in “Trompsø is OK” giacché l’esperienza dei Giardini Di Mirò si fa reale e concreta, annuendo al vizio degli accordi in croce e richiamando paesaggi nordici capaci di stringerci il cuore come in una morsa di catabatico elvegust.
Se esiste una seconda parte di “Rise And Fall Of Academic Drifting” essa comincia proprio con “Pearl Harbor” e non si capisce se in qualche modo c’entri col celeberrimo attacco giapponese alla sonnolenta base americana durante l’ultimo conflitto mondiale. Di sicuro il mood triste e malinconico della composizione non rallegra i nostri sensi, anzi li sprofonda nella successiva “Little Victories” (cantata da Paul Anderson), una canzone pregna di significati esistenziali, un elogio alle piccole vittorie quotidiane ed una congiura contro l’effimero che in esse si nasconde. La precarietà dei giorni è tema anche della eloquente title-track, dove al mellotron si mischiano gli FX analogici e le schitarrate si alternano con veemenza al clarinetto basso. Diversa la faccenda per quanto riguarda “Penguin Serenade”, una traccia dai risvolti nascosti, confusi ed arcani; in essa non c’è un vero e proprio intento narrativo quanto invece una più spiccata vena di inestinguibile dolore, di atroce sofferenza, di svogliata presa di coscienza, di agognata e non trovata felicità: la felicità della lontananza.
I Giardini Di Mirò hanno continuato a produrre grande musica ma la debordante originalità di questo lavoro rimane preziosa come la collana d’una nostra trisavola passata di mano in mano e giacente ancora lì, sul vecchio comò di legno massello, a ricordarci da dove veniamo per evitare di cadere nella tracotanza di questi tempi rampanti.
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