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R Recensione

7,5/10

Dirty Projectors

5EPs

Uno e quintuplice. Quella dei Dirty Projectors, nel 2020, è stata una scelta originale: accompagnare l’intera durata dell’anno con la pubblicazione progressiva di cinque EP - l’ultimo è uscito il 20 novembre - raccolti ora in un volume unico, denominato appunto 5EPS. Venti brani per la durata di circa un’ora, per riassumere gli interventi di un sestetto variopinto che ha vantato nel corso del tempo illustri collaborazioni - con David Byrne, nel 2009, per l’album Dark was the night, finalizzato a una raccolta fondi per la lotta all’AIDS; con Björk, con la quale realizzano un EP nel 2010, Mount Wittenberg Orca.

Non c’è recensione che non tenga conto, quando un ascolto merita orecchio più di un altro, di un dato che sembra essere diventato un po’ un ritornello obbligato per molti autori e autrici, una specie di prassi politica nel definire i musicisti che hanno accompagnato l’ultimo decennio, ovvero la varietà stilistica. Fusioni di genere, polistrumentismo, polivocità, multilinguismo, diverse provenienze geo-musicali... E forse questi sostantivi cominciano ad illuminare sempre meno gli occhi di chi legge, di chi, come per prendersi una boccata di aria tersa, vorrebbe riuscire a fare un po’ di ordine nella Babilonia dei generi musicali. Ebbene, i Dirty Projectors sono una quintessenza di polivocità che tuttavia non risulta mai fine a se stessa, una band che per amore di disciplinato design, di un’estetica monda, smacchiata e perciò sicuramente raffinata, come quella che emerge solo sfogliando le copertine di questi cinque EP, è stata per quest’occasione sapientemente suddivisa in cinque voci, adottando quindi una via piuttosto semplice ed elegante per disciplinare ed elogiare la differenza, i diversi timbri dei componenti e delle componenti del gruppo. Chi ascolta questo 5EPS è sicuro di ascoltare ogni sfumatura musicale del sestetto americano e di potersi concentrare tanto sulle rifrazioni di stile quanto su come queste, lungi da creare conflitto, formano, come in ogni buona opera di artigianato musicale, tessuto.

L’ampiezza dell’album pretende, per venire incontro alla sopportazione del lettore che già si è sorseggiato aggettivi fin troppo alcolici in questa recensione, di rinunciare a una prassi che è un po’ la firma di Storiadellamusica, la sua aria di casa, ovvero analizzare il lavoro brano per brano: i Dirty Projectors ci consentono, stavolta, di camminare disco per disco. Windows Open è il primo ed è uscito a marzo. La voce è quella di Maia Friedman, al suo esordio vocale nella band di cui è già chitarrista, mentre l’architetto è David Longstreth, anima principale del sestetto. Il tono è quello di un EP dai vivaci toni folk, in cui dalla scanzonata Overlord, nel cui videoclip la voce (un po’ alla Mitchell un po’ alla Cat Power) della Friedman si mescola ai suoi bei primi piani urbani, si passa alla più malinconica e onirica Search for life, dove emerge un bellissimo arrangiamento d’archi - arpeggi, trilli, guizzi, cadenze.

Mondo a parte è il seguente Flight Tower, risalente a giugno e confezionato da Felicia Douglass (membro anche degli Ava Luna). Più simile a ritmi che siamo stati abituati a sentire dai precedenti lavori della band, come l’omonimo Dirty Projectors (2017) e Lamp it prose (2018), la meravigliosa voce di Felicia, unita ai testi di David, dà vita a un’atmosfera sonora più tipicamente soul e R&B, con un complesso arrangiamento elettronico e di percussioni a fare da sfondo (Inner love, Self design) che non dispiacerà di certo né agli amanti del pop né a quelli della musica da club (Empty vessel) - chi sopporta in questo caso il termine indietronica, sopporterà. Tra i riferimenti culturali degni di nota che non devono passare in sordina c’è l’arpeggio di piano che emerge all’inizio di Self design: se vi è tanto piaciuto è perché sono note riprese nientedimeno che dal capolavoro Miroirs di Maurice Ravel, qui pronto ad affondare in basi elettroniche sincopate e barcollanti. E noi che ci rispecchiamo tanto nelle une e nelle altre, perché ne abbiamo fatto la sintesi dialettica, abbiamo apprezzato.

Il terzo disco, il più autunnale (di forma e di fatto) del disco, Super João, è un omaggio al grande João Gilberto, il re brasiliano della bossanova, il cui spirito vaga dolcemente in queste tracce, in cui David Longstreth, affezionatissimo ascoltatore del musicista scomparso nel luglio 2019, ci fa viaggiare delicatamente tra le corde di chitarra e ritmi che facevano sognare il Brasile degli anni 50, il Brasile della samba canção corretta con il cool jazz nordamericano. La voce trasognata di Longstreth, che ci ricorda in parte un timbro boniveriano (molto evidenti nell’ultimo brano, Moon, If Ever, simile anche nell’arrangiamento ad alcuni lavori di Bon Iver), ci guida in tutte e quattro le tracce.

I fiati orchestrali che introducono Earth Crisis sono accompagnati da immagini invernali, neve soffice e piena, come nella ouverture di una suite russa in cui però è pronta ad emergere una voce profonda, che viene dalle montagne, simile a quella di Anohni. Il disco recupera alcune tracce mai utilizzate dalla band che risalgono al lontano 2008. Questa volta l’EP si fa portatore di un messaggio sociale, rappresentato da un titolo evocativo che, mescolato ai toni naturalistici dei brani, fa riferimento diretta alla realtà ecologica contemporanea e alla crisi ambientale. Notevole l’onomatopeica Bird’s Eye, in cui, come proprio i russi ci hanno insegnato a fare agli inizi del secolo scorso, i volteggi degli archi, campionati e ripetuti assieme la voce in loop, ricordano il volo di un uccello in soggettiva. Now I know è forse il brano ho personalmente più amato: l’arrangiamento orchestrale è davvero notevole e la voce di Kristin Slipp si rivela tanto capace di mettere in scena una melodia incantata, da musical, quanto una trenodia (ricorda, se vogliamo, Julia Holter, quando ci faceva sognare in Loud city song).  

La conclusione, un risveglio primaverile folk-rock, è affidata al recentissimo Ring Road, che conclude il ciclo riunendo tutti i membri della band in quattro tracce corali. Riascoltiamo, mescolati in un volume, i toni dell’intero lavoro - dalla beatlesiana Por qué no alla R&B My possession -, in cui i contrasti, le differenze vanno risanandosi: È l’EP forse meno degno di nota dell’album (ma non di certo per lasciare una nota amara), con l’eccezione forse di una presenza più eccezionale della chitarra rock in No studying, che si riadagia sulle corde folk nella sconda parte del brano, sorretta dalle voci femminili in coro. Certamente, perché è così che deve andare.

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