Edward Sharpe and the Magnetic Zeros
Here
La personalità è in buona parte maschera, e indossarne una ci consente di amplificare, e distorcere insieme, parte della mutevolezza del nostro Io. A volte abbiamo l’occasione d’indossarne una più autentica, aderente al vero sé, altre cediamo a soluzioni di convenienza o d’impossibilità, col rischio di falsare parte dei nostri tratti più strutturali. Nel caso di Alex Ebert, poliedrico trentaquattrenne californiano, di molti artefatti caratteriali è stata, ed è costellata la sua carriera: dapprima, via tentativi francamente malriusciti di imporsi con il rock mainstream degli Ima Robot; poi, in perfetta e diagnosticabile dissociazione identitaria, dal 2005 costruendosi un ruolo da dannato e fascinoso hippy postmoderno nelle vesti di Edward Sharpe, sostenuto da dodici coprotagonisti, i losangelini Magnetic Zeros. E, di recente (2011), sull’onda del buon successo ottenuto col collettivo, ha tentato addirittura il colpaccio solista, con il moniker Alexander (“Alexander”, via Rough Trade Records).
Crisi esistenziale nel mezzo, rito di passaggio, e un’evoluzione on the road dalla posizione di narciso attivo ad un ruolo più passivo (o, meglio, collettivistico), che ha portato il nostro ad una svolta artistica apprezzabile, consentendo a lui e alla sua band di sfociare in una sinergia d’intenti assoluta - impreziosita, inoltre, da alcune collaborazioni di assoluto rilievo: prima fra tutte quella coi Flaming Lips.
Laddove il debutto degli Edward Sharpe and the Magnetic Zeros, “Up from Below” (2009), puntava ad enfatizzare, e ibridare col ‘nuovo’, certo revival folk corale (incontrando un notevole successo in America, con il singolo “Home”... miracoli del tubo) da “summer of love” senza soluzione di continuità, “Here” mette in mostra nuove specificità: prima fra tutte, la risoluzione del sound ben più lo, discretamente in contrasto con la buona fedeltà del debutto. In seconda istanza, vi è nel sophomore un umore meno esplosivo ed espansivo nelle composizioni, le quali si fanno qui più raccolte, maggiormente spirituali. In ultimo, pur permanendo ancora la ricerca di melodie immediate e di uno spiccato senso armonico (soprattutto, a livello vocale) e ritmico, a questo giro si passa per arrangiamenti più articolati e sfaccettati.
Coloriture country (Johnny Cash) – rock, roots e di folk psichedelico (Devendra Banhart), anche e soprattutto a cavallo tra 60s e 70s (The Incredible String Band), insieme a una quantità di tocchi gospel/soul (Jade Castrinos, con quella sua voce minimamente raschiata e sì modulata, incredibile), citazioni reggea (in “One Love to Another”) e di folk orchestrale degli anni zero. Impossibile non lasciarsi ipnotizzare da “Man on Fire”, e dal suo stacco pulsante, corale e liberatorio dopo il primo refrain. Il pezzo, scelto dalla band per la recente e catalizzante esibizione al Late Show, è seguito dall’incidere country di “That’s What’s Up”, caratterizzata da una coda tutta hand-clapping - vicina a certe fragranze corali dei canadesi Bruce Peninsula. La Castrinos, che qui guida le varie traiettorie del brano, dà il meglio di sé in uno dei pezzi rappresentativi di “Here”: ”Fiya Wata”, la quale circola da parecchio tempo sotto la sigla “Fire & Water” - si veda, tra gli altri, la loro ”i Tunes Session”. Il pezzo, dall’assoluto tiro instant classic, è un inno soul e country-rock all’amore incondizionato verso l’altro, e alla magnificenza, incorruttibile, della natura (<<river of love/ we are returning/ fire water/ we are still learning>>). Apprezzabile la compostezza acustica di “Child”, così come le aperture orchestrali ‘minime’ di “Dear Believer” e la melodia (à la Bon Iver) ciclica di “All Wash Out”; la chitarra luccicante e vagamente africana (splendidi gli ottoni, sbilenchi nel mezzo, e a seguire la melodia del coro) di “Mayla” è forse uno dei momenti più alti del disco.
Messa a nudo, quindi, altamente spirituale, sia per impasto sonoro che per evocatività (da religiosità spicciola e naïf) delle liriche - esemplificativo, su tutte, il mantra di “I Don’t Wanna Prey”: <<I love my god, god made love/good/hate/bad>>. Per compattezza, e per qualità di ogni singola composizione, “Here” si impone come uno dei dischi da avere per questa prima metà dell’anno. E i giochi non sono ancora conclusi per gli Edward Sharpe and The Magnetic Zeros: entro qualche mese uscirà un nuovo full length, già anticipato da Ebert come più in linea con le atmosfere di "Up from Below".
Fiducia, ampia, ottenuta: attendiamo con estremo interesse.
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