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R Recensione

8/10

Erin K

Little Torch

È soltanto il 2011 quando una giovane ragazza inglese di nome Erin Kleh, imbraccia per la prima volta una chitarra. Per la precisione, una chitarra acustica. Potremmo dire che sia stata magia, potremmo usare frasi di rito, come che quella chitarra già possedeva in sè un intero concerto di canzoni. Ma non è così, nessun Mefisto di turno l’ha fermata su un crocevia di campagna per comprare la sua anima in cambio di un talento sorprendente.

La giovane Erin Kleh è diventata immediatamente l’artista Erin K semplicemente perché ha trovato nella chitarra uno strumento perfetto per esprimerla, la sua anima.

Ed è un’anima folk, o meglio, indie-folk, ad un primo superficiale ascolto. La semplicità della chitarra acustica che stende trame ariose, bonghi e ritmiche festive, gli arpeggi gioiosi dell’ukulele, la voce a tratti spensierata che canta libera come si canta sotto la doccia, dopo una giornata di mare.

Eppure Erin K non è affatto in questo banale ritratto di vita semplice e serena. La sua musica vive nelle sporadiche brusche distorsioni della chitarra elettrica, nelle profonde dilatazioni degli archi, nei controcori sensibilmente frementi e, soprattutto, nel contrasto magistrale tra il senso delle sue parole e la voce che le emette. È allora, nel momento in cui la percezione estetica immediata dell’ascoltatore elabora una prima, anche fragile, interpretazione, che Erin libera tutta la sua vena abrasiva, quella propria di un punk capace di mascherarsi nelle profondità quiete del folk: è allora che Erin K si dimostra un’artista dell’anti-folk.

L’anima anti-folk ispirata da artiste come Ani Di Franco e Regina Spektor danza in “Little Torch” impedendoci di comprendere come sia possibile che questo sia il suo disco d’esordio, ma riesce ad illuminarci perfettamente sul perché, prima di esso, Erin avesse già calcato i palchi più celebri di Londra, da quello delle Olimpiadi del 2012 a quello del Festival di Edimburgo, dalla Union Chapel alla Bush Hall, e a invadere le frequenze della BBC, il tutto senza incidere alcun album.

Nel 2013, forse per scappare dai rumori di una fama crescente e creare le atmosfere quiete essenziali alla riuscita del proprio album, Erin lascia la natia Inghilterra e fugge dal rifugio degli Stati Uniti andando a creare proprio in casa nostra, in Italia. Più precisamente a Livorno dove, sotto la collaborazione artistica degli Zen Circus (Andrea Appino), incontra una dimensione dell’indie più provinciale e semplicemente perfetta per la riuscita del proprio album d’esordio.

È così che a Gennaio del 2017 vede la luce “Little Torch”, un vero e proprio luogo il cui spazio risulta misurabile per vibrazioni sonore che emergono da piccoli indizi disarmonici, da lievi accenti discordanti con un’armonia folk, ma in grado di dare a questo luogo l’anima pura e contraddittoria dell’anti-folk.

La voce dolce e sensibile di Erin rimanda a tratti a quella pulita e innocente di Suzanne Vega (“Coins”), a quella divertita e infantile di Regina Spektor (“Dum Da Dum Song”) o a quel sospiro irresistibile che emetteva (e a volte emette tutt’ora) Cat Power. Ma essa sembra attrarre suadente soltanto per sferrare i propri fendenti composti da storie impoetiche (come il recital “I Just Ate Shit”), parole caustiche (come l’intensa ballata folkAssholio”, serrata come un pezzo punk rivisitato da Johnny Cash), esortazioni volgari poste con voce carezzevole (“Take your ass off the pavement” canta in “Pay to Play”) dichiarazioni amorevoli di non-amore (“Love is not for me, it’s just a game you see I’m free, I’m just not made up that way”, canta in “I Feel For Your Face”) ed ironiche dimostrazioni di amore impossibile (“Beautiful Monkeeh”).

Eppure, Erin sembra sfatare un ennesimo luogo comune, quello che vuole l’amore impossibile laddove esso non è ricambiato. Erin, infatti, non tratta bene il proprio ascoltatore, lo illude e lo fa piangere per un amore che non vuole o forse non può (“Couldn’t”) dare, ma egli, irretito, non può fare a meno di amarla. Forse non semplicemente perchè gli dice la verità, ma per il modo unico in cui lo fa.

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