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R Recensione

8/10

King Creosote & Jon Hopkins

Diamond Mine

Al giorno d’oggi puoi registrare la tua musica direttamente sul tuo disco fisso, caricarla in rete e in pochi secondi mandare i tuoi mp3 ad uno smartphone in giro per il mondo.

Oppure puoi tuffarti nel catalogo ventennale di un cantautore, estrarre i pezzi che preferisci e prenderti ancora alcuni anni per vestirli con i suoni dei luoghi che hanno ispirato queste canzoni, finendo per ritrovarti fra le mani un unico pezzo di musica che ti lascia di stucco e ti colpisce al cuore.

Non ci sono parole migliori di quelle di uno dei suoi autori, Kenny Anderson, in arte King Creosote, per spiegare cosa sia “Diamond mine”, un piccolo disco uscito nel 2011 che, con soli sette pezzi ed in una trentina di minuti, ha stregato e rapito cuore e mente di tante persone.

Tanto da guadagnare la candidatura al Mercury Prize, un sacco di premi nella stampa specializzata britannica ed ora addirittura l’onore di una special edition con l’aggiunta di sei composizioni supplementari, perfettamente in tema con lo spirito del lavoro originario.

King Creosote vive in un villaggio di pescatori sulla costa est della Scozia, una regione chiamata Fife, e, come racconta lui stesso, “dove vivo per lungo tempo le luci nelle sere invernali sono solo due, la mia e quella di un vicino”. Sembra uno di quei tanti artigiani delle emozioni in musica che vivono di concerti e cd registrati e venduti in proprio, alla fine delle esibizioni, per riuscire magari dopo tanti anni a spuntare un piccolo contratto che gli consente di affacciarsi appena un po’ più in là della propria isola.

Fino a che, quasi per caso, grazie ad una improbabile alleanza con un altro artigiano, lontano però anni luce dai suoi delicati acquarelli acustici, Jon Hopkins, un dj che proviene dal centro pulsante e danzante di Londra e lavora cesellando suoni digitali, crea un inaspettato e quasi inconsapevole capolavoro.

L’idea è quella di raccontare come in una novella la vita dei luoghi dove Creosote abita, e quindi il sottofondo alla sue delicate melodie folk proposte con toni vocali intimi e toccanti sono i rumori della strada, i gabbiani, le campane del paese, il vento ed il mare, registrati e processati da Hopkins insieme agli strumenti acustici e ad eterei fondali elettronici.

E’un esperienza da provare, perché mentre si acolta “Bats in the attic” o “John Taylor’ s month away” sembra veramente di essere là, nell’East Neuk of Fife, insieme ai due autor , a godersi un beato isolamento dal mondo, nei momenti in cui l’ambiente circostante favorisce l’evocazione di un panorama interiore che oscilla, a seconda dei casi, fra la disperazione più profonda ed una insensata euforia.

C’è spazio per tutti i sentimenti fra i toni epici di “Running on fumes” con le piccole esplosioni in sottofondo e la  coda noise, il techno folk di “Bubble” e le melodie scottish di “Your own spell”. Ma i pezzi inseriti nella nuova edizione ampliata, tre dall’EP “Honest words”, una nuova versione di “Bat in the attic” e due inediti, dispensano sorprese altrettanto belle: l’ambient di “Aurora boring alias” o la più ritmata “Third swan” fanno da preludio alla conclusione strumentale di “Starboard home”: un piano ricama una struggente melodia mentre intorno si accavallano field recording e rumori trovati.

Deve essere un po’ così da quelle parti. Luoghi , e suoni, adatti a chi propende per un ritiro cullato dalla malinconia.

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Voto degli utenti: 6,9/10 in media su 4 voti.
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creep 9/10
target 7/10
REBBY 6/10
andy capp 5,5/10

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