Okkervil River
Black Sheep Boy & Black Sheep Boy Appendix
L’album più recente (2005) dei texani Okkervil River è stato da poco ripubblicato con allegata l’appendice già uscita nel tardo 2005. Due dischi per un totale di diciannove tracce e un packaging sontuoso, impreziosito dai disegni gotico-grotteschi di William Schaff.
Il quartetto di Austin capitanato da Will Sheff è ormai una delle band indie folk più celebrate d’America, e a ragione. Meno dispersivi di Conor Oberst, più malinconici e meno giocosi dei Decemberists, hanno recuperato le sonorità e lo stile dei Neutral Milk Hotel, privandoli, però, del tocco punkettoso e ruvido; con questo disco si può tranquillamente dire che abbiano raggiunto una loro cifra distinguibile. Gli Okkervil suonano un inquieto folk-rock tra campagna e città, fatto di praterie e case semidiroccate, rievocano gli spazi ampi ed erbosi degli stati del sud, cantano storie di un’America marginale, in cui i motel lungo le statali intersecano scene domestiche invernali, i tubetti di dentifricio fanno da sfondo ad amori impossibili, favole moderne tra solitari si alternano a penose realtà fatte di pillole e bigmac. Il ‘black sheep boy’ è tutto questo (oltre al titolo di una canzone di Tim Hardin qui riproposta), ed è l’ambigua emarginazione che ne segue, la sua ricerca e il suo dramma.
Le undici canzoni del primo disco sfoggiano tutto il bagaglio sonoro della band di Austin: chitarre, wurlitzer, mandolini, violini, ma anche trombe, fisarmoniche, violoncelli. La voce di Sheff è nostalgica, a tratti si inerpica e va fuori tono, ma il suo sapore di terra ti sporca con le cose che dice. “Black Sheep Boy” è una breve e felice cover introduttiva che lancia “For Real”, in cui la chitarra elettrica distorta e gli andirivieni di rumore fanno intravedere una band più energica del passato. Lo stesso dicasi per “Black”, in cui si nota l’importanza del ruolo di Meiburg, che col wurlitzer detta le melodie e produce i gusti legnosi del disco. Non mancano, in realtà, le atmosfere più intime tipicamente okkerviliane: da “Get Big”, riproduzione a due voci di piccole spaccature casalinghe, alla deliziosa “A Stone”, voce e acustica prima, poi batteria spazzolata, un piano, e quindi un insieme orchestrale dolce e ubriaco allo stesso tempo, con Sheff che canta lo sfortunato destino dell’amante sognatore.
Se si esclude l’incursione quasi brit di “The Latest Toughs”, in cui anche la voce di Sheff assume sfumature infelicemente gallagheriane, l’atmosfera e le influenze rimangono a stelle e strisce. C’è spazio per le romanticherie di “A King And A Queen” o per il melò teatrale di “A Glow”, ma anche per il folk più sostenuto di “Song Of Our So-Called Friend”. È qui che la band dà il meglio di sé, tra cori e fiati, con uno stile pieno ed evocativo, sempre bilanciato tra un songwriting che ama cullarsi in amare disillusioni e paesaggi quotidiani. Dondolo su veranda con vista su campi.
Gli otto brani dell’appendice proseguono sulla stessa linea, aggiungendo un paio di pezzi memorabili, come “No Key, No Plan” (con squisito controcanto di Zachary Thomas) o “The Next Four Months”, americana da viaggio, o “Another Radio Song”, inquietante rassegna di depressioni da routine, diretta, bruciante, con una seconda parte martellante che prova a liberarsi in uno sfogo che si morde la coda, con l’organo che alza un muro di suoni acri. Tangenze con gli Arcade Fire.
“Black Sheep Boy” è un’oasi di indie-rock consapevole e spietato, nostalgico e amico. Contiene una galleria di emozioni e paesaggi non facili da trovare altrove. Il suo seguito è atteso in estate: gli Okkervil River sono attesi alla porta di casa, a cantarci un mondo periferico che somiglia al nostro ogni giorno di più.
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