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R Recensione

6,5/10

Shelley Short

Then Came the After

Un’ottimista per natura questa Shelley Short, nella cui testa v’è una equazione rapidissima di linee convergenti che collegano il suo background personale al resto del mondo. Nativa di Portland, Oregon, la nostra artista ha vissuto in molti altri luoghi, e in questi altri luoghi ha conosciuto idee, persone, strumenti, contaminazioni. Autrice e cantante, Shelley Short è cresciuta davanti al camino tra i personaggi e gli artisti che frequentavano la sua casa, di per sé già piena di libri, dischi e pasti ben cotti. Questo stile di vita, degno del XIX secolo, è uno dei tratti peculiari dell’artista americana: al pari una casa vittoriana, la legna da tagliare, i cibi coltivati nell’orto, gli abiti vecchi, una vecchia ma elegante Studebaker, l'ascolto massivo di Johnnie Ray e The Flamingos. La musica che resta impressionata su questa pellicola sfocata degli anni ’60 è una verde cattedrale delle piccole cose, un ritratto fatto da mani sensibili, un soffice peluche di stoffa dal naso sfilacciato. Colpisce molto che “Then came the after” arrivi dopo ben quattro album di inediti – il primo dei quali è datato 2003 – che hanno fatto fare alla nostra artista pochi passi sulla scena internazionale. Forse la colpa non è tutta sua.

Se ascoltiamo il disco, dopo l’intro chitarristico di “To carry”, è subito la volta del pezzo scelto per il lancio promozionale, “Right away”, morbida canzonetta in stile Bat For Lashes senza che però l’elettronica di quest’ultima intacchi in alcun modo la struttura d’antan voluta dalla Short, anche se Mike Coykendall ci mette il suo autoharp. “Plane” mima una psichedelica ninna nanna jazz con aeroplanini che svolazzano sulla culla del bambino intonati dall’arpa celtica di Alexis Gideon e dal contrabbasso di Nate Query; “Steel”, molto più ferrigna, si cimenta in alcuni passaggi col rock visionario dei Pink Floyd (il paragone serve solo per rendere chiara a tutti l’idea di fondo), mentre “The dark side” riporta Shelley alle origini country con un bel lavoro alla batteria di Rachel Blumberg. È la volta di “Caravan”, metafora del viaggio e della residenza, del migrante e dello stanziale, un brano racchiuso in un testo elegantissimo appoggiato semplicemente sulla chitarra acustica; e poi percussioni e pianoforte a pollice per il pezzo più multiculturale dell’intero disco, “These walls”, in una bellissima danza africana piena di allegria e spensieratezza. Cantautorato puro in “June” e “In the net”; tristezza infinita in “Nintendo”, anche grazie alla matematica cadenza delle batterie di Julianna Bright, di certo aiutata da un trigger; ambientalismo da colonna sonora in “Electricity”; infine tanta sconfinata raffinatezza con “Laugh the dust”. “Then came the after” è stato scritto e registrato con un suono più brillante e vivo rispetto ai precedenti album, e questo forse ne farà la sua piccola fortuna. Ma se dovessimo in qualche modo analizzare le influenze che hanno ispirato Shelley Short, dovremmo allora menzionare i The Decemberists (di Portland anch’essi), la sempreverde Roberta Flack, l’eclettico Roger Miller, l’immenso Nino Rota e il libertino Pharaoh Sanders; e se questi nomi dicono poco o nulla basti pensare a quelli dei giorni nostri come Kate Bush, Amycanbe, PJ Harvey o CocoRosie.

Then came the after” è un disco fatto di ripetizioni ma è tutt’altro che monotono. La sua breve durata lo rende un gioiellino e la voce di Shelley Short, se a volte è poco incisiva, sa essere anche ammaliante, aiutata com’è dai tanti amici strumentisti di cui s’è contornata. Il disco è più che sufficiente e il talento non manca; quello che forse manca è uno sguardo d’insieme sulle dinamiche artistiche del mondo che verrà.

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