R Recensione

8/10

Sophia

People are Like Season

Sophia è il nome di un gruppo indie-folk di origine britannica il cui primo album, Fixed water, porta la data del 1996. Ma c’è una storia molto più lunga e complessa alle spalle di questo nome: Robin Sheppard, prima di essere fondatore dei Sophia, lo è stato di una band mitica di nome God Machine. Il mito di questa band è quello che aleggia attorno ad ogni creazione artistica di cui si perdono le tracce nel tempo, pur rimanendo indelebile nella mente di ascoltatori sedotti e nelle pagine dei grandi critici degli anni ’90: riconosciuto il valore assoluto della produzione God Machine (composta dal 1991 fino al 1994), i loro dischi restano introvabili.

Sorte differente sembrano avere i Sophia, i quali, oltre ad avvalersi del consenso della critica, hanno conosciuto una diffusione più ampia della loro produzione artistica, seppur nell’ambito esclusivo dell’indie, grazie all’etichetta Flower Shop Recordings, fondata dallo stesso Sheppard. L’esperienza dei God Machine si conclude nel 1994, con la morte del bassista, ma la musica dei Sophia sembra avere un punto di forza centrale proprio grazie all’eredità della formazione precedente: il folk-rock è arricchito magistralmente da atmosfere cariche di violenza grunge e romanticismo dark, da enfatiche virate stoner e richiami psichedelici, da un crossover appartenente ai God Machine che qui crea uno spazio sublime in cui la voce suadente di Sheppard può immergere armonicamente i suoi testi poetici e decadenti.

Sferzate di chitarre aprono il disco in tonalità elevate, ad accompagnare la voce modulata al limite tra un sussurro e un grido: “Oh my love” è una confessione pronunciata ad un’amante lontana, un amore sterile, sommerso e non corrisposto, la possibilità rifiutata del rischio splendido di rivelare sé stessi a colui che si ama, “like you said I guess, yeah / maybe I’m blind / well, why don’t you open your eyes, you might like what you find”. La voce si dilata in un bisbiglio, si dirama in più tonalità, l’una sovrapposta all’altra, per riunirsi nel suono suadente di una frase rassegnata, “swept back to all the grief and the worry”, e gettarsi disperato tra le braccia consolatorie di un coro, in una malinconica decadenza: “I know you don’t deserve to be broken / so just focus on the light”.

Un pianoforte detta la linea languida di “Fool”, ma il peso della consapevolezza grava sul tono della voce, trasfigura il sussurro in un urlo straziato e rivela l’assurdità di ogni gesto compiuto di fronte agli uomini che cambiano come cambiano le stagioni: lo rivela ad un ragazzo che potrebbe essere lui in un tempo passato, prima che anch’egli cambiasse, “hey boy, listen / don’t beat yourself up / someday you will find someone to trust / and just remember that all is not always black / people are like season / yeah, everybody changes / fool, fool, who you running from”.

Violini respirano nell’aria alternandosi a lievi accordi di chitarra, si soffocano e lasciano spazio alla voce, impercettibile, anch’essa poco più che un respiro pronto a disperdersi da un istante all’altro nel silenzio. Ma un pianoforte si apre al disopra di essi e li riunisce in una melodia che ha la forma della preghiera alla vita, “Just let yourself go…”, un crescendo travolgente costruito attorno ai suoi accordi, sempre più vivo, sempre più vitale, fino ad aprirsi in un’esplosione di chitarre elettriche, simile a quella meravigliosa di un’infinità d’incontenibili risa.

Il ritmo adrenalinico di “Darkness (another shade in your black)” sferza l’intera direzione del disco, trascinandolo in un vortice convulso al limite tra grunge e noise: la voce è l’eco sporca di un lamento pronunciato attraverso il filtro di effetti distorti, secca e cinica parla di sensuali ossessioni, si abbandona alla perversione, “your obsession of death fascinates me / wet my head in your poison stream”. “If a change is gonna come…” è semplice e diretta, distorta e violenta nel suo incedere sostenuto, tra le pieghe delle chitarre graffianti si incastra ruvida la voce in una cantilena alienata e alienante che deride la vita e la morte nella loro follia: “life’s a bitch, yeah, and then we die / and it’s too short to wonder why”.

Swore to myself” è un apparente ritorno alla calma in cui l’atmosfera è creata dagli accordi di una chitarra acustica che si spande sognante, ma al dispora di essa una domanda si ripete al limite dell’ossessione, senza mai ricevere una risposta, “oh please, won’t you let me in”, e sembra essere la richiesta di una redenzione da un passato violento, simile a quello vissuto nei due pezzi precedenti. La redenzione appare raggiunta in “Holidays are nice”, un pezzo pop, di un’allegria al limite del banale, arricchito da una voce spensierata e da cori ingenui, si sostiene su un giro di accordi scolastici e su un testo che sembra scritto di fronte all’innocenza di un raggio di sole in un mattino di primavera. Il piano suona ripetendo una scala come non riuscisse a continuare oltre, come non riuscisse a ricordare.

La voce interviene a superare la confusione e con essa una linea di basso si distende a riempire il suono, una chitarra accenna alcuni accordi, la batteria detta il tempo, come se ogni nota fosse la giustificazione a quella defaiance inziale. “I left you” cresce di intensità ad ogni parola che la voce pronuncia, trascinandosi dietro il pianoforte e ogni altro strumento: è consapevole e disperata, figlia del rimpianto. Riprende fiato, si spegne ogni strumento. E ancora ritorna a cantare, solitaria, prima di essere seguita nuovamente dal resto della musica alla quale riesce a imprimere il coraggio del ricordo, e soltanto attraverso di essa, attraverso ogni nota scivolata da ogni singolo strumento, la voce cresce per farsi sentire, per imprimersi alle orecchie distratte di chiunque raggiunga, quasi gridando, come se avesse paura che lo sforzo del ricordo andasse perso per sempre: “I left you, it’s seemed to hurt us less than if I stayed / and I left you, but how long will it take for you to forget this hate / and if I will you closer can you fell the presence of my thoughts / and you don’t say much now, but what you say just tears my world apart”.

Il finale è l’inutile tentativo di cambiare pagina, il giuramento pronunciato a sé stesso di ricominciare da capo, una promessa consapevole della sua impossibilità, del suo inevitabile fallimento, “Another trauma”: una chitarra accompagna la voce rauca e stanca, ma entrambe sembrano girare a vuoto, senza riuscire a trovare un senso, un’armonia, un ritornello, un sorriso. A volte si assopiscono entrambe lasciando spazio a un vuoto silenzio ed esso sembra avere molto più significato di qualsiasi nota o parola, anche un pianoforte si accompagna a loro, in quello che potrebbe essere il suono delle lacrime che scivolano a rigare il volto, se solo queste producessero un rumore: “I’d salute another trauma / I’ve out run before another’s begun / and I just want to rest a while / and I promise tomorrow I’ll start with a smile”.

People are like season è un viaggio attraverso il costante altalenarsi instabile delle emozioni: tra la meraviglia del futuro possibile e la disperazione desertica del passato, si apre uno spazio mistico nel quale si cerca una salvezza, una catarsi, senza mai riuscire a raggiungerla, sempre appesi in bilico tra illusione e rassegnazione, tra calma innaturale e sterile rabbia.

Il crossover dei Sophia sostiene perfettamente la bilancia sulla quale le emozioni opposte si muovono l’una sull’altra, permette che esse si sfiorino e che si penetrino arrivando a confondersi, in una condensazione tragica molto simile a quella della vita.

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Voto degli utenti: 7,4/10 in media su 5 voti.
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C Commenti

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tramblogy (ha votato 7 questo disco) alle 19:10 del primo aprile 2010 ha scritto:

carino ma meglio i primi

fabfabfab (ha votato 6 questo disco) alle 21:07 del primo aprile 2010 ha scritto:

"I left you" e "Oh my love" sono due pezzi che mi piacciono molto. Il disco lo trovo un po' ridondante.

benoitbrisefer (ha votato 8 questo disco) alle 19:44 del 6 aprile 2010 ha scritto:

Premesso che amo svisceratamente i Sophia (e ancora di più da quando in concerto mi sono ritrovato a 3 metri 3 da Robin e dalle raffiche emotive riversate sul pubblico per oltre due ore!!) ritengo quest'album (pur con ottimi pezzi come la splendida oh my love)alla distanza il meno convincente forse per la sua smania di essere troppo piacione e strizzare un occhiolino alla classifica (se non ricordo male il pezzo sopra citato circolava addirittura su MTV). Ma per non passare per il solito nostalgico della serie "quanto erano belli i primi dischi!" (e comunque belli lo sono davvero!!) andatevi a sentire l'ultimo "There are no goodbyes" capolavoro dal suono secco e compatto, struggente come solo i Sophia sanno essere: senza autocompiacimento!!

baronedeki (ha votato 8 questo disco) alle 18:06 del 25 aprile 2017 ha scritto:

Una delle poche recensioni che promuove l'album. Leggendo i tre commenti e le recensioni di altri siti quasi all'unamita tutti concordano buono ma però. A me l'album è piaciuto è vero che strizza l'occhio alle radio ed Mtv ma non si può fare sempre lo stesso album e passare all'incasso per non vivere di sola gloria non lo trovo così sbagliato se poi il risultato è buono ancora meglio. Il giusto compromesso qualità commercialita'. Grazie Zagor per il consiglio .