St. Vincent
Marry Me
Annie Clark, 25 anni per 50 chili scarsi di ragazza, è indubbiamente dotata di un talento semplicemente disarmante e questo val la pena chiarirlo subito, per non doverlo ribadire troppe volte in seguito . St. Vincent non è che lo pseudonimo che la giovane polistrumentista, originaria dell’Illinois, ha deciso di utilizzare per incidere i propri lavori in studio , anche se con il suo nome di battesimo già aveva saputo costruirsi di un discreta reputazione. Dagli esordi a fianco dei Polyphonic Spree, successivamente accanto al conterraneo Sufjan Stevens, per cui divenne artista di supporto nel suo europeo, fino al primo EP autoprodotto ormai datato un anno fa. Ed ora questo Marry me che, a dispetto del fatto di essere un album d’esordio, sembra quasi il tentativo di tirare un primo bilancio nel percorso musicale già ricco di esperienze della Clark.
Il disco appunto è forse una delle migliori prove che la nuova generazione delle songwriters americane ha saputo regalarci negli ultimi anni. Allo stesso tempo è anche la testimonianza che Il folk-rock, cosi come, Ani di Franco ha saputo reinventarlo, ha decisamente fatto scuola e in artisti come Annie Clark ha trovato nuovi felici interpreti. Ascoltare Paris is Burning per credere, uno dei momenti più forti e originali di tutto l’album, con i suoi enfatici cambi di ritmo che sfociano in quel coro finale (Dance, Poor People, Dance) dal sapore ambiguo e dissidente . La poliedrica artista è in realtà ben attenta a non farsi ingabbiare troppo da certi schemi e allora si muove a suo agio anche tra forme-canzone apparentemente più convenzionali. La title-track Marry Me parte come la più comune delle ballate romantiche per poi rivelarsi alla distanza un piacevole esercizio di arguzia e ironia quasi dissacrante (Let’s do what Mary and Joseph do, without the kid). La stessa arguzia e ironia che è possibile ritrovare in Jesus Saves, I Spend, filastrocca rock alla maniera di Francoiz Breut.
Come molti dischi d’esordio questo Marry Me soffre della necessità di dover mettere insieme cose diverse, sviluppate in momenti e contesti diversi e di non riuscire ad emergere come un opera concepita con un capo ed una coda ben definiti. Altrove (Land Mines, The Apocalypse Song) sembrano infatti emergere concessioni a suoni più vagamente elettronici sposati ad un chamber pop che finiscono per sottolineare notevoli assonanze con Joan Wasser, un’altra bella sorpresa emersa (relativamente) di recente nel panorama delle autrici oltreoceano.
Senza però indugiare in pericolose elucubrazioni e mettendo per una volta da parte l’occhio cinico del critico sempre alla ricerca di punti deboli è decisamente preferibile approcciare questo disco con l’anima candida di chi ha non perso la voglia di farsi conquistare e di cadere preda del colpo di fulmine. Potrebbe nascere una storia d’amore.
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