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R Recensione

6/10

Strand of Oaks

Leave Ruin

Ogni cantautore ha la sua piccola leggenda, poco importa se vera o creata ad arte. Timothy Showalter, alias Strand of Oaks, ne ha una assai provinciale. Si dichiara un giovane professore dell’Indiana trapiantato in Pennsylvania dove, per racimolare qualche soldo, ha pure guidato lo scuolabus. Otto Disc ed Edna Caprapall messi assieme, insomma. Il tutto sullo sfondo di un’America (forse volutamente) marginale. Nessuna ragione per non credergli.

Il suo debutto consiste in un disco di nove pezzi folk rock tra Will Oldham e Tom Brosseau (cui lo avvicina la voce, vicina anche ai toni delicati di un Chad Vangaalen), ed ha il difetto di mancare di due cose: l’energia che bilanci le ballate e qualche canzone in più. Non poco, insomma. Soprattutto perché la mancanza di pezzi è forse alla base del tentativo, per lo più deleterio, di allungare alcuni brani fino a raggiungere minutaggi inutilmente esagerati: “New Paris” supera senza nessuna necessità i sette minuti, mentre “Do You Like To Read” raggiunge i nove, con la sola conseguenza di mettere a dura prova la resistenza al sonno dell’ascoltatore.

Peccato. Perché dove si contiene Showalter scrive ottime canzoni. E qui ce ne sono almeno quattro. Deliziosa “End In Flames”, in cui un arpeggio di elettrica (doverosamente clean) dà corpo alla sotterranea ritmica dell’acustica, mentre un hammond sullo sfondo edulcora il tutto. Su questo canovaccio sono costruite anche “Lawns Breed Song”, cui giova un uso dello slide nelle strofe da americana youngiana, e “Dogs Of War”, quasi alla Simon & Garfunkel (c’è un vago richiamo a “The Sound of Silence” in alcuni passaggi melodici), intrisa di dolce amarezza («I need you like I need the snow / you feel much better in the cold»).

Il quarto episodio da annotare è “Sister Evangeline”, una tenue ballata con testo ficcante («she’ll keep running from me and I’ll keep touching myself, and we’ll both die of guilt»: è un verso da annotarsi) e un intermezzo di piano. Poco aggiungono alla sostanza dell’album la breve elegia folk di “Two Kids” e i fraseggi blues di “Mourning Worker”, un po’ flaccida. Perché Showalter è uno di quei cantautori narrativi che amano raccontare, pure troppo, trascurando talvolta la godibilità musicale del complesso: il difetto diventa enorme in un pezzo come “New Paris”, costruito su un accavallarsi stracciapalle di due-accordi-due senza neppure la compensazione di una piattissima linea vocale.

Ma la pasta c’è, via. Aspettiamo che Showalter si aggiunga alla schiera dei songwriters che contano come i bimbi aspettano il suo bus. Arriverà.

V Voti

Voto degli utenti: 7/10 in media su 1 voto.
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C Commenti

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fabfabfab (ha votato 7 questo disco) alle 18:48 del 10 febbraio 2009 ha scritto:

Madò, Francesco che cita Oldham ... lo cerco subito!

StockholmSyndrome alle 19:48 del 10 febbraio 2009 ha scritto:

Dovrei averlo in giro...al più presto darò una sentita. Bella rece