Strand of Oaks
Leave Ruin
Ogni cantautore ha la sua piccola leggenda, poco importa se vera o creata ad arte. Timothy Showalter, alias Strand of Oaks, ne ha una assai provinciale. Si dichiara un giovane professore dellIndiana trapiantato in Pennsylvania dove, per racimolare qualche soldo, ha pure guidato lo scuolabus. Otto Disc ed Edna Caprapall messi assieme, insomma. Il tutto sullo sfondo di unAmerica (forse volutamente) marginale. Nessuna ragione per non credergli.
Il suo debutto consiste in un disco di nove pezzi folk rock tra Will Oldham e Tom Brosseau (cui lo avvicina la voce, vicina anche ai toni delicati di un Chad Vangaalen), ed ha il difetto di mancare di due cose: lenergia che bilanci le ballate e qualche canzone in più. Non poco, insomma. Soprattutto perché la mancanza di pezzi è forse alla base del tentativo, per lo più deleterio, di allungare alcuni brani fino a raggiungere minutaggi inutilmente esagerati: New Paris supera senza nessuna necessità i sette minuti, mentre Do You Like To Read raggiunge i nove, con la sola conseguenza di mettere a dura prova la resistenza al sonno dellascoltatore.
Peccato. Perché dove si contiene Showalter scrive ottime canzoni. E qui ce ne sono almeno quattro. Deliziosa End In Flames, in cui un arpeggio di elettrica (doverosamente clean) dà corpo alla sotterranea ritmica dellacustica, mentre un hammond sullo sfondo edulcora il tutto. Su questo canovaccio sono costruite anche Lawns Breed Song, cui giova un uso dello slide nelle strofe da americana youngiana, e Dogs Of War, quasi alla Simon & Garfunkel (cè un vago richiamo a The Sound of Silence in alcuni passaggi melodici), intrisa di dolce amarezza («I need you like I need the snow / you feel much better in the cold»).
Il quarto episodio da annotare è Sister Evangeline, una tenue ballata con testo ficcante («shell keep running from me and Ill keep touching myself, and well both die of guilt»: è un verso da annotarsi) e un intermezzo di piano. Poco aggiungono alla sostanza dellalbum la breve elegia folk di Two Kids e i fraseggi blues di Mourning Worker, un po flaccida. Perché Showalter è uno di quei cantautori narrativi che amano raccontare, pure troppo, trascurando talvolta la godibilità musicale del complesso: il difetto diventa enorme in un pezzo come New Paris, costruito su un accavallarsi stracciapalle di due-accordi-due senza neppure la compensazione di una piattissima linea vocale.
Ma la pasta cè, via. Aspettiamo che Showalter si aggiunga alla schiera dei songwriters che contano come i bimbi aspettano il suo bus. Arriverà.
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