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R Recensione

7,5/10

The Cat and The Fishbowl

Feels Like Home

Nel panorama musicale contemporaneo, il folk è forse il genere che più di tutti ha sfruttato il favore dei nuovi mezzi di comunicazione, i quali hanno permesso alla sua dimensione tipicamente regionale di superare i propri confini. È forse proprio questa la connotazione decisiva che permette l’evoluzione dal folk all’indie-folk. Il grande salto compiuto da quest’ultimo genere, infatti, è quello di svincolare dai confini di una singola regione del mondo il sentimento popolare che esprime, pur mantenendo salda la radice della propria tradizione identitaria. Il suo miracolo è non limitare più la propria musica al sentimento di una specifica cultura, ma estenderla a una dimensione infinitamente più ampia, esprimendosi con un linguaggio che trova la propria universalità nel raggiungere la dimensione più intima di ogni singolo individuo.

Ed è esattamente questo che The Cat and The Fishbowl riescono a fare. Non c’è alcun confine regionale nella loro musica, i loro pezzi possono provenire dall’Irlanda, dall’Inghilterra, dal profondo sud rurale degli Stati Uniti o dal suo nord industriale. Il loro violino fa sognare le colline verdi d’Irlanda, il loro guitalele apre l’immaginazione a spiagge esotiche, le loro tastiere viaggiano verso i paesaggi sterminati di una highway americana, eppure questo non li costringe affatto ad abbandonare il suolo sul quale poggiano i loro piedi, in modo saldo.

The Cat and The Fishbowl sono due ragazzi della Pianura Padana che cantano canzoni in inglese e suonano come fossero di un altro paese. Filippo Gaudenti e Matteo Bonavitacola sono due ragazzi che sanno guardare verso luoghi lontani, entrarci dentro e gustarne il sapore dei sentimenti, ma sempre, rigorosamente, dalla loro prospettiva culturale. A sentirli, questa appartenenza si rintraccia nel loro modo di cantare, quando sentiamo la pronuncia inglese dei loro testi dura e italianizzata. La prima inevitabile impressione è quella di una stonatura, di un errore formale nell’espressione linguistica, ma basta poco per accorgersi del loro geniale inganno. Filippo e Matteo non cercano di simulare un accento brit o americano, semplicemente perché non vogliono.

E così le atmosfere indie dei loro pezzi non si staccano mai del tutto dagli ampi spazi della Pianura Padana, come quando in Take me to the One I Love ci fanno partire musicalmente da una campagna inglese autunnale e poi ci spingono all’improvviso, con la loro voce, nella bruma lombarda serale, tracciando un filo di malinconia che unisce questi luoghi lontani, come un elemento universale valido in ogni luogo del mondo, perché valido nell’intimo di ogni uomo.

Can I Kiss Your Cheek? ha la stessa capacità, con il guitalele che la fa da padrone disegnando spazi esotici che ci smarcano dai vigneti piemontesi dove il protagonista spinge la sua bicicletta, rincorrendo quella della ragazza amata da una vita, ma ormai tanto vicina da risultare irraggiungibile.

Le Caveau ci apre una dimensione ancora più lontana, dove un’armonica scandisce il ritmo di un qualche spazio dimenticato del sud degli Stati Uniti e un violino spalanca le porte di una fattoria nella quale si continua a suonare, da un tempo immemore, sempre lo stesso puro country. E non è un caso che ci sembri di ricordare un Jackson Brown d’annata, perché non siamo solo in un altro spazio rispetto al nostro, ma anche in un altro tempo, che improvvisamente si spezza nella distorta pronuncia inglese del ritornello, riportandoci, ancora una volta, a un tempo presente e ai bar delle notti venete.

E i violini sembrano moltiplicarsi, richiamare all’Inghilterra suonata dai Mumford and sons, disperarsi nella coda che quasi grida un dolore davvero universale, sempre sul filo rosso dell’amore che attraversa, in un modo o in un altro, ogni canzone. Stavolta è la disperazione di un tradimento (Betrayal), ma l’equazione non cambia, e riesce perfettamente.

E non parliamo affatto del luogo comune dell’amore come sentimento che unisce ogni uomo da ogni paese e tradizione, ma parliamo dei sentimenti puri che The Cat and The Fishbowl espongono in modo perfetto per attrarre l’ascoltatore, smarcarlo in un posto che è solo una facciata e cantargli nella loro lingua, come a dirgli: “puoi appartenere ad ogni cultura, ad ogni spazio e ad ogni tempo, ma i sentimenti che proverai sono sempre gli stessi di ogni altro uomo ha vissuto, vive e vivrà su questa terra”.

Che questa sia una condanna o un conforto non ci deve importare ora. La sola cosa da fare è vivere i sentimenti che i Cat ci stanno offrendo, guardare i paesaggi che ci offrono, lasciarli stimolare la nostra memoria sonora, dai Decemberists ai Lumineers, e infine non impedire che ci stordiscano rivelandoci la finestra, aperta al di sopra delle terre della Pianura Padana, dalla quale stiamo ammirando questi paesaggi. Questo è Feels Like Home: una strana e attraente sensazione di falsa associazione mentale, qualcosa che, in qualche modo, potremmo definire come “perturbante”.

 

 

 

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