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R Recensione

8/10

The Decemberists

The Hazards Of Love

La sera è già calata da un pezzo sul villaggio, e l’aria tutt’attorno è ancora pervasa dagli strilli delle madri che, fino a poco prima, intimavano ai propri figli di smetterla di giocare a pallone per le stradine polverose, perché a sporcarsi tutti si sarebbero presi una bella strigliata. Ma le case sono chiuse, le serrande abbassate, i cortili deserti, i giochi riposti disordinatamente in un angolo dei giardini. Ora tutti sono seduti al centro della piazza principale, una coperta su un braccio, lo scialle sull’altro, la curiosità dipinta a leggere volute sui volti. Fra loro, crepita un falò. All’improvviso, un mormorio pervade la gente: una figura tondeggiante sta emergendo dal buio del circonvicino per andare a posizionarsi in mezzo alla folla. Capelli con il riporto come non se ne vedono più da trent’anni, occhiali, la faccia stralunata di uno che non sa bene cos’è venuto a fare. È arrivato il cantastorie, quel Colin di cui tutti parlano, e dietro di lui ecco farsi largo una manica di personaggi un po’ barcollanti, agghindati alla bell’e meglio, che sembrano condividere con il loro leader un’aria di sovversivo pedagogismo. L’uomo si siede a gambe incrociate, poi imbraccia la chitarra scheggiata che aveva a tracolla e comincia a cantare. O, più precisamente, a poetare cantando. Con lui, anche tutti gli altri. 

Volevo scrivere romanzi, un attimo dopo mi vedevo musicista e il giorno seguente un insegnante. […] Cercai di riassumere tutto in una band che sapesse accomunare le mie passioni per i racconti magici e la storia. […] Ho imparato a cantare tardi, all’Università, durante le prove di teatro. Recitavo in questa specie di teatro che inscenava musical e non aveva voci maschili. Da allora non ho mai smesso”.  

Lo strano caso di Colin Patrick Henry Meloy, born in 1974. Che cosa deve comunicare un songwriter per essere credibile? Quali caratteristiche deve possedere un moderno rapsodo per coinvolgere la platea dei propri, novelli akoùsas senza risultare noioso, pedante o prevedibile? Da che estrazione sociale deve provenire una persona che sa parlare, con la stessa delicatezza, di un amore perduto, di un soldato morto al fronte che promette di tornare, dall’Aldilà, alla propria amata e di descrizioni naturalistiche tardo-vittoriane, il tutto correlato da un lessico quantomeno ricercato e da un contrappunto strumentale particolarmente raffinato? Il deus ex machina dei Decemberists, prima di approdare all’esordio discografico con il meraviglioso “Castaway And Cutouts” (2002), le ha provate proprio tutte per far fuoriuscire il proprio talento. Con una sorella scrittrice affermata, una laurea in Inglese all’Università del Montana ed un fallimentare progetto musicale alle spalle (i Tarkio, discreti mestieranti college rock senza secondi fini), la scalata agli allori sembrava proibitiva. Sette anni dopo, con un paio di milioni di copie vendute in tutto il mondo (più di 300.000 in America solo con l’ultimo, bello, “The Crane Wife”), i fatti parlano per lui – e per loro –.

I Decemberists sono dei personaggi strani, da prendere con le molle. Chiunque, di fronte a questo successo, lo avrebbe legittimato blindando la propria formula a delle striminzite canzoncine folk di ben scarso spessore artistico ma di sicuro impatto mediatico. Non ci sarebbe poi voluto così tanto, non credete? D’altra parte, lo ripetiamo, il talento di Meloy e compagni va nettamente oltre quello che può essere il singolo di facile presa. E loro, invece, cos’è che fanno? Giro di boa, indietro tutta, remando controcorrente per produrre un disco che si scrive “The Hazards Of Love”, si legge: opera rock. Avete capito bene: niente più “Tristan And Iseult” o “July, July!”. La metamorfosi del gruppo, già in aristotelico divenire da un paio d’anni, sboccia così prepotentemente nel magnifico, complesso e strettissimo intarsio di quest’ora densa di personaggi, curiosità, saliscendi musicali, ospitate più o meno eccellenti (si segnalano Robyn Hitchcock, Lavender Diamond e My Brightest Diamond).

L’ambizioso concept su cui si sorregge il disco, una fiaba con protagonisti Margaret, una fanciulla, una strega volta all’intrigo, svariate creature magiche ed un’ambientazione naturalmente medievaleggiante, è ottimamente reso dal grande dispiego di ruoli che, in ogni pezzo, assumono di volta in volta sia le partiture strumentali che i registri di voce. È una sorta di teatro-canzone, quello che va in scena su “The Hazards Of Love”, dove ogni figurante assume precisi connotati, e persino le situazioni psicologiche che intercorrono fra i protagonisti sembrano avere uno specifico adattamento sonoro. Non a caso, l’impostazione stessa del lavoro, oltre ad avere un’impronta marcatamente operistica, si rifà sovente al modello delle soundtracks, dove un tema viene ripreso in più movimenti ed i vari passaggi vengono collegati fra loro mediante interludi strumentali e reprise varie. Avremo perciò una “A Bower Scene”, storytelling squarciato da un assalto di chitarre pesanti come mai prima d’ora, citata appena avanti in “The Abduction Of Margaret”: interstizi ottimamente colmati con balocchi di banjo (“The Queen’s Approach”) e fingerpicking trinati da arpe (“An Interlude”, efficace).

Ma, come dicevamo, quello che avvince maggiormente del nuovo corso dei Decemberists è questa capacità di parlare in maniera sempre più pluristilistica. È pur vero che i brani più convincenti sono quelli legati al loro passato più lontano, come “Isn’t It A Lovely Night?”, splendida ballata acustica per riverberi di chitarra e fisarmonica ossianica, o “Won't Want For Love (Margaret In The Taiga)”, che prende R.E.M. e Counting Crows per corroderli in un distillato quasi post-punk. Tuttavia, l’acume del sestetto del Montana, a livello di testi e melodie (ci vorrebbero settimane per analizzare tutto alla perfezione!) raggiunge profondità tali da far dimenticare persino singoli molli come “The Rake’s Song” che, di rastrellante, ha solo l’incisività e l’ipnotismo del riff portante, in un miasma lo-fi tutto sommato dimenticabile. La completezza del materiale qui contenuto è altresì ben evidente in pezzi come “The Queen's Rebuke / The Crossing”, stralunato andamento à la Borroughs, che cita gli episodi più elaborati del precedente “The Crane Wife” in salsa zeppeliniana, con tanto di chitarre spesse e afflati tastieristici.  

Sono sincero, dirò la verità: nonostante una personalità come quella di Meloy avrebbe potuto farlo presupporre, ed il cursus honorem del gruppo fosse in continua ascesa d’ambizione, non mi sarei mai aspettato una mutazione così piena e matura, consapevole dei propri limiti e desiderosa di limarli di volta in volta sempre più in là, pur stringendo il cerchio attorno al proprio passato, quando necessario. Qualcuno, forse, verrà spiazzato dai sei minuti e mezzo di “The Wanting Comes In Waves / Repaid”, che si apre con un clavicembalo e sfocia poi in un hard rock ad alto tasso voltaico. Il madrigale che s’immette nel singalong, l’ancient che scivola nel vintage: un menestrello di corte, insomma, che all’improvviso si leva di testa il cappello e fa comparire una pila di amplificatori old style. Eppure è sempre rassicurante quando, messi da parte i tracimanti e curati solipsismi, i Decemberists tornano a fare i Decemberists: quelli di “Castaway And Cutouts”, con “The Hazards Of Love 1 (The Prettiest Whistles Won't Wrestle The Thistles Undone)”, folk venato da leggeri rivoli blues dall’aroma cajun, o quelli di “Her Majesty The Decemberists”, con la minimale conclusione a sorpresa, “The Hazards Of Love 4 (The Drowned)”. Cercate la perla più brillante di tutte? Provate a leggere sotto “Annan Water”, una gemma acustica tra songwriting, country e prog sinfonico che vi rimarrà nel cuore per mesi e mesi.

Oh, gray river / Your waters ramble while / The horses shiver / And bide against the bridal / But I will cross / If mine own horse is pulled from me / Though my mother cries that if I try / I sure will drown it be / Will drown it be / Will drown it be / Will drown it be”.  

E l’amore sbocciò impetuoso.

V Voti

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REBBY 3/10
rael 8/10
krikka 8/10
target 5/10
salvatore 5,5/10

C Commenti

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fabfabfab (ha votato 5 questo disco) alle 0:11 del 6 aprile 2009 ha scritto:

Da riascoltare.

Voto congelato, al momento. Ma la prima impressione è pessima.

target (ha votato 5 questo disco) alle 9:19 del 6 aprile 2009 ha scritto:

Idem con fabio. Troppo lavoro, poco cuore. Immagino fosse un disco che doveva capitare, perché asseconda percorsi musicali presenti (magari solo con accenni) sin dai loro inizi. Ma speravo che non capitasse; non così. Tornerò.

andy petretti (ha votato 4 questo disco) alle 22:24 del 6 aprile 2009 ha scritto:

peccato

bruttino, anzi, brutto. Pomposo. Magari è uno di quegli album che crescono col tempo. Magari anche no.

Marco_Biasio, autore, alle 22:52 del 6 aprile 2009 ha scritto:

Caspita, ha fatto schifo proprio a tutti! Be', mi dispiace, molto. Forse sono io che amo ascoltare opere così bilanciate e ragionate, o forse fra le varie canzoni solo io avverto ben presente un cuore che palpita, vivissimo ("Annan Water"?). In ogni caso, non mollateli: ripescatevi i precedenti, in particolar modo "Castaway And Cutouts", e farete un figurone!

benoitbrisefer (ha votato 5 questo disco) alle 0:14 del 7 aprile 2009 ha scritto:

Lo devo ancora ascoltare... poi il voto. Per il momento mi limito ad osservare che la recensione (peraltro ottima) non cita mai Picaresque, a mio parere l'album finora più maturo e convincente del gruppo. Brutto segno?

fabfabfab (ha votato 5 questo disco) alle 9:36 del 8 aprile 2009 ha scritto:

La prima impressione era quella buona

Con estremo dispiacere

target (ha votato 5 questo disco) alle 16:57 del 8 aprile 2009 ha scritto:

Niente da fare. In questo disco mi sembra che manchino proprio le canzoni. Passino gli interludi, i ponti tra le canzoni, i leitmotive, le riprese melodiche a distanza, ma in mezzo di bei brani ne rimangono davvero pochi ("Isn't it a lovely night", vecchio stampo, "The wanting comes in waves/Repaid", con una Shara Worden spettacolosa, "Annan Water"). Per lo più si ascoltano gratuite schitarrate pesanti ("The queen's rebuke/the crossing"), parenti del peggior momento da "The Crane Wife" ("When the war came"), senza una-melodia-una da ricordare e spesso prive di sostanza. Meloy, secondo me, al suo punto più basso, oltre che compositivo, anche vocale: troppi strascicamenti bizantineggianti per mascherare una mono-tonia spinta. Peccatissimo.

benoitbrisefer (ha votato 5 questo disco) alle 14:13 del 9 aprile 2009 ha scritto:

Ascoltato e abbastanza deluso. Non mancano alcuni buoni brani, ma anche tante cose inutili e talvolta irritanti. Album alla fine confuso, senza direzione, sospeso fra un passato che non si può iterare all'infinito e un futuro fra prog e schitarrate hard rock che purtroppo non appare roseo. Sottoscrivo commento e voto di target (forse poteva essere anche sufficiente, ma quando ti delude una persona cara la rabbia è più forte...!)

Marco_Biasio, autore, alle 14:08 del 10 aprile 2009 ha scritto:

Caspita, sono proprio stato l'unico a farmelo piacere. E' indubbio dire che mi dispiace, molto. Sarà per la prossima volta!

rael (ha votato 8 questo disco) alle 12:14 del 9 giugno 2009 ha scritto:

buono, anche se non ai livelli di picaresque e gli altri, che siano giunti al capolinea?_'

unknown (ha votato 8 questo disco) alle 20:25 del 7 marzo 2015 ha scritto:

questo disco è parecchio sottovalutato...secondo me andrebbe riascoltato meglio

unknown (ha votato 8 questo disco) alle 20:35 del 7 marzo 2015 ha scritto:

volevo aggiungere che questo è l'album prog del gruppo