A Toys Orchestra
Technicolor Dreams
A costo di risultare pedanti non ci si può esimere dal ribadire, per l’ennesima volta, ciò che già era stato detto a proposito dell’ottimo esordio dei Micecars e (con tutti i distinguo del caso) dell’altrettanto eccellente lp dei Montecristo: la marginalità della scena italiana, da sempre vista come una sorta di handicap, ultimamente sta svelando un inaspettato, positivo, effetto collaterale.
Gli A Toys Orchestra sono l’ennesimo gruppo indie italiano venuto su ascoltando i nuovi classici della musica alternativa, mandando a memoria dischi e ritornelli, allo stesso modo in cui, parecchi decenni fa, in Inghilterra si studiavano e ristudiavano i dischi di Chuck Berry e Buddy Holly.
Perché, se ci perdonate il paragone scomodo, pare davvero che, anche in questo caso i frutti di questa condizione un po’ passiva stiano cominciando ad arrivare: chiamati a rielaborare i modelli illustri d’oltreoceano in forme nuove, i nostri connazionali, non più intimiditi dalle asperità dell’idioma anglofono, cominciano a sfornare dischi che non temono la competizione con quelli dei loro “fratelli maggiori”.
Ed è con un pizzico di orgoglio sciovinista che ci si trova ad ascoltare questo terzo lavoro della A Toys Orchestra, gruppo campano attivo dal 1998, che, arrivato alla sua terza prova discografica trova, finalmente, la quadratura del cerchio pop: e, lasciatemelo dire, si tratta di quadratura superlativa e stupefacente.
Complice la produzione di Justin O’Halloran dei Devics, l’”orchestra di balocchi” procede gioiosamente e senza barriere su un sentiero lastricato di gioielli pop, che non prevede passi falsi né cadute di stile, e inanella meraviglia su meraviglia, rielaborando e rileggendo quanto di meglio è stato prodotto a livello indie negli ultimi dieci anni.
Mostro di ecumenismo pop, baciato da uno zenith di ispirazione accecante, Technicolor Dreams non nasconde le sue influenze, ci gioca e gli ridà nuovo smalto, le fonde tra loro e le rimodella: i Blonde Redhead più pensosi rivivono nell’incipit di Invisible e i Modest Mouse grattano irrequieti sul fondo di Cornice Dance, i Calexico spuntano tra le pieghe da canzone francese di Mrs Macabrette e marciano a braccetto coi Black Heart Procession lungo i sentieri dolenti di Santa Barbara, mentre la titletrack non può che richiamare nell’incipit le avventure sonore del signor E.
Materia fine e pregiata, ritessuta in nuove, strepitose maglie sonore da un gruppo all’apice della forma compositiva, che non disdegna la forma cantautoriale (Letter To Myself) ma sa trastullarsi con abilità con l’elettro pop (Ease Off The Bit), che si imbarca in ballate marinaresche alla Coral (Amnesy International) ma si concede amabilmente all’easy listening Morriconiano (Panic Attack #3). E che, all’occorrenza, sa pure commuoversi e adagiarsi sugli accordi semplici e la struttura spoglia, da cameretta, di Be 4 I Walk Away.
E se dopo gli Svedesi e i Canadesi fosse finalmente la volta del tanto bistrattato indie italiano? C’è una sola scusante per non amare un disco come questo: non averlo mai ascoltato.
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