Beatrice Antolini
BioY
Tanto gentile e tanto onesta pare. La Beatrice nostra da Macerata. Tanto che finalmente anche fuori di qui - fuori dal circolo vizioso e feticistico dei sotterranei italo - sembrano essersi accorti di lei. Come a dire che ormai era quasi impossibile non farci caso. Non notarla e salutarla per quello che è: una one-girl band apolide e scombiccherata, una musicista colta e imprendibile aldilà di tutti i suoi hocus pocus transonici. Una mosca bianca nel panorama pop italiano dove, come si disse a suo tempo, sembra capitata un po’ a caso e un po’ per caso. Anche per questo il terzo album, BioY, le è uscito fuori nel modo giusto e al momento giusto. A due anni da A Due, e perdonateci lo scilinguagnolo, con parecchi occhi ammiccanti e curiosi puntati su di lei (occhi abituati a guardare da tutt’altra parte) e con una formula che rilegge le bizzarrie e gli equilibrismi del precedente ad un livello leggermente più accessibile, intelligibile per gli standard del suo canzoniere fin qui.
L’andamento rapsodico e, a detta dell’autrice stessa, un po’ schizofrenico di A Due qui cede parzialmente il passo ad un maggior controllo formale, il minimo indispensabile per una che s’è sempre definita “informale”, esercitato sui medesimi mezzi espressivi. Così gli electro-balletti fiabeschi e psichedelici, fra Prokofiev e i Jennifer Gentle, divengono meno centrifughi e dispersivi, più centrati sul nucleo della canzone, senza rinunciare a quelle variazioni interne ad orologeria che l’hanno fatta amare/odiare fino ad oggi. Lo stesso discorso vale anche per l’interpretazione vocale dell’Antolini che si fa, a tratti, più languida e sensuale, con punte quasi noir, fatali, sempre lunare ma lasciando sullo sfondo i ghirigori più schizzati e infantili. E la scrittura, non dico che ci guadagna, ma sicuramente poco o nulla ci perde. Se nella title-track inalbera una specie di electro-fandango con i fiati che rilasciano il ritornello criptico, in We’re Gonna Live lascia trapelare un’attitudine al dancefloor da fatina maliziosa mascherata dietro le solite freakerie: un inedito intreccio di lounge italico, groove spaziale e synth-pop da isola che non c’è. Nell’abrasiva Night Shade invece mostra il suo lato più lugubre, dark (parola che so che a lei non piace ma che a noi semplifica di molto le cose), cinematico, neanche fosse una Joanna Newsom in provocanti abiti industrial, mentre la più nota Venetian Hautboy (già presente nella discussa compilation antisanremese Il Paese è Reale) veleggia fra il funky weimariano e il siparietto gotico cartoonesco alla Elfman/Burton. Può sfogare la sua fervida immaginazione in un patchanka electro-dark (ancora quella parolina che ritorna, sorry Beatrice) che tracima in una splendida outro jazzata: titolo Eastern Sun.
Poi dopo aver sudato le proverbiali sette camice da notte, l’Antolini si ricompone, nasconde il risolino da discola dietro la faccia seria signorina adulta, e tratteggia due ballad sotto formalina che sembrano fatte apposta per rispondere a coloro che sostengono che sotto il vestito c’è poco o niente, che se non fa la (cappellaia) matta non è contenta: la tenebrosa, romantica Paranormal, densa di pennellate jazzy, dove il suo primo strumento, il contrabbasso, ondeggia e sostiene l’incedere cullante e (a suo modo) sopranile e poi Planet, piano e archi adombrati nel più neoclassico dei modi, strizzando forse l’occhio a Kate Bush ma senza presunzione, come si farebbe con un’amica molto più grande, grandissima. E brava lei. Piccola grande donna che cresce. E dimostra che anche in Itaglia (ci) si può regalare qualche soddisfazione.
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