Il Teatro Degli Orrori
A Sangue Freddo
Un progetto nato senza pretese e senza pronostici, concepito come parallelo alle rispettive esperienze di One Dimensional Man e Super Elastic Bubble Plastic e cresciuto rapidamente grazie alla sua genuinità e al conseguente passaparola tra pubblico e addetti ai lavori, nonché supportato dal beneplacito pressoché totale della critica. Risultato: in poco meno di tre anni Il teatro degli orrori si consolida come una delle più interessanti e forti realtà attualmente in circolo nel Paese, progetto caratterizzato da un notevole impatto sonoro, emotivo ed intellettuale, che colpisce immediatamente per la sua intensità sotto ogni punto di vista e che fa di Capovilla lultimo alfiere esistenzialista.
Ogni nota, ogni parola tradiscono un travaglio e un tormento che travolgono inarrestabili, pasciuti da quellordinarietà, bieca e inconsapevole (forse la peggiore delle colpe), che denigrano. Del resto il lead-singer si auto-definisce un catastrofista consapevole e non cè dunque da sorprendersi se a ricorrere frequentemente siano temi come la sconfitta e lineluttabilità degli eventi. Capovilla, è indubbio, ha qualcosa da dire e vuole farlo in maniera vigorosa ed incisiva, da qui la scelta, maturata qualche anno fa, di abbandonare il cantato in inglese (da sempre utilizzato con i One Dimensional Man) per passare allitaliano.
Un gesto che, in maniera di certo inaspettata per gli stessi componenti del gruppo, ha prodotto la svolta determinante: il pubblico italiano comprende finalmente i testi , li impara a memoria, li canta a gran voce, una conquista non da poco per chi, come Capovilla, ha sempre considerato il testo nella sua sacralità, come qualcosa di assolutamente non secondario o riempitivo ma, al contrario, carico di valenze e rimandi che, come una freccia scoccata, cerca bersagli da infilzare, scuotere e infiammare. Lesordio del gruppo è stato dunque fulminante, raccogliendo un numero di consensi sempre crescente e la seconda prova, si sa, è sempre un difficoltoso esame da superare, specie quando le grosse aspettative costituiscono una pressione non indifferente e quando si ha da sostenere il pesante fardello di primo della classe. Tuttavia, già dopo un primo ascolto, ci si può ben rasserenare e capire che ancora una volta ci si trova di fronte a qualcosa di particolare rilievo.
E proprio con la prima traccia, Io ti aspetto, si ha subito limpressione di percepire uno spessore notevole, è un inizio maestosamente tragico, come un urlo munchiano, come una marea che sale, fino all'apnea, in unattesa ossessa, che si dilata in una notte infinita, di chi ormai non giungerà più. E la prima disperata pulsazione di questo lavoro, il pezzo che vanta forse il maggior numero di collaborazioni dell'intera opera, con il preziosissimo apporto al piano, minimale e notturno, di Paola Segnana e la sezione archi molto ben curata da Angelo Maria Santisi e Nicola Manzan, rispettivamente al violoncello e al violino. Un intro che di certo spiazza chi ha conosciuto il gruppo all'opera d'esordio, avvezzo a sonorità tipicamente melvinsiane-lizardiane non propriamente carezzevoli, un intro che mette subito ben in chiaro l'attitudine del gruppo, non disposto a fossilizzarsi in statiche sonorità eternamente rigenerantisi.
Ma il muro di suono che caratterizzava lopera prima, compatto ed imponente, non tarda ad arrivare ed ecco allora pezzi come Due, la title-track A sangue freddo, il serratissimo trittico di Mai dire mai, Il terzo mondo e Alt!. Il filo conduttore, come si è già detto, è dato da una spiccata tensione, emotiva ed esistenziale, che accomuna indissolubilmente ogni brano e che amalgama e rende il discorso omogeneo. Ancora una volta limpressione che se ne trae è quella di un lavoro solido e ben strutturato, ben pensato in ogni sfumatura, con particolare attenzione alla cura dei testi, sempre caustici e visionari, ma anche di denuncia e condanna in uno scenario che permane apocalittico, con poche vie di fuga sbarrate spesso da amarezza e disillusione.
Lamore per il teatro, non solo quello di Artaud ma in particolare quello di Carmelo Bene, non rimane più solo velata citazione tra le righe ma diviene omaggio devotamente esplicito in Majakovskij, omaggio al riadattamento beniano di Allamato me stesso del drammaturgo russo, che costituisce di certo uno degli episodi più intensi ed attraenti di questo lavoro, in cui la poetica di Bene sembra fondersi perfettamente allesasperata e sulfurea liricità di Capovilla. Altro brano di spiccato interesse, che batte la via della ricerca e della sperimentazione, è Direzioni diverse, lasciato per ultimo nelle registrazioni perché non convinceva del tutto il gruppo, motivo che ha spinto Favero a far giungere in soccorso lamico Bob dei partenopei Bloody Beetroots (altra realtà nostrana, acclamata anche allestero, che miscela sonorità punk ad esplosivi battiti techno-house), che ha donato al pezzo una raffinata veste minimal-electro impreziosendolo al punto da farne, almeno per il sottoscritto, uno degli episodi più pregiati del disco.
Convince anche E colpa mia, che si distingue per un noise più etereo e rarefatto e la chiusura affidata alla suggestiva e lisergica Die zeit che, insieme allopen-track, costituisce lepisodio dalle tinte più noir dellopera e che ricorda atmosfere tanto care ai Massimo Volume quanto al cantautorato decadentista di Cesare Basile. Il teatro degli orrori si consolida dunque come una realtà oramai imprescindibile per il nostrano panorama indie, di uno spessore verrebbe da dire daltri tempi, sicuramente insolito per una band contemporanea che emerge senza difficoltà da quel quasi indistinto pullulare di gruppi affollanti la nostra scena (ormai satura da tempo) ma che purtroppo risulta spesso affetto da sindrome di epigonismo e derivativismo nonché da esterofilia incipiente.
Con ciò dicendo non vogliamo affermare che la band sia esente da influenze varie (gli ormai ben noti richiami a gruppi come Melvins e Jesus Lizard e a quanto di bello è stato partorito da unetichetta come la Touch & Go, in particolare negli anni 90), ma cè una sostanziale differenza tra chi si lascia contaminare da molteplici riferimenti e chi invece copia e incolla passivamente senza far proprio quel linguaggio per poi portalo avanti secondo la propria estetica; Il teatro degli orrori non appartiene di certo alla seconda categoria. Unica pecca, se così la si può definire: la mancanza di un pezzo dalla sconvolgente, dolorosa profondità come La canzone di Tom, ma ci rendiamo conto che a certe piccole perfezioni esistano anche dei limiti nella loro irripetibilità.
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