Il Teatro Degli Orrori
DellImpero Delle Tenebre
Il mondo è un palcoscenico, e che lo vogliamo o no la vita è sempre una rappresentazione. Che sia una commedia o una tragedia (spesso comunque comica), dipende un po dalla nostra inclinazione e molto dalla fortuna, dal destino, dal caso.
La metafora è banale eppure quantomai calzante; e mettere il tutto in musica non è certo facile, ma è una sfida sempre avvincente: cè la possibilità di dire davvero tutto, da dietro una maschera, ingiurie politiche e sentimenti nascosti, tremende confessioni e dubbi intimi, propositi celati e segreti altrimenti inconfessabili. Soprattutto se la maschera è quella del buffone di corte, che si può permettere anche di deridere il re. Ci hanno provato in molti, in molti modi, da una parte allaltra delloceano, ma si è ormai persa la memoria di quando lesperimento è stato provato lultima volta in Italia, se è mai stato provato davvero. E soprattutto, se è stato mai provato in lingua italiana.
Il Teatro degli Orrori è una sorta di super-gruppo voluto e fondato ormai due anni or sono da Pierpaolo Capovilla, Francesco Valente (One Dimensional Man) e Gionata Mirai (voce e chitarra dei Super Elastic Bubble Plastic) che hanno ben presto coinvolto nel progetto linstancabile Giulio Ragno Favero, ex chitarrista degli ODM ed ora batterista dei Putiferio, che qui suona il basso ed ha anche registrato e mixato lalbum.
Lo spettacolo si apre con un invito rivolto al maestro ad accomodarsi ed incominciare, prima di urlare che non si era mai sentito niente del genere, e di partire in quarta con una frase-manifesto che resterà ben fisso per tutto lalbum: vita mia, a noi due. Si fanno i conti con lesistenza già da subito, ma al termine della canzone è già ben delineata la scelta di vita e musica fatta dal gruppo: non cè voglia di scherzare, e addirittura lintero campionario di avventure bohémien viene svenduto per un viaggio allinferno, dove cè confidenza con Lucifero stesso e, finalmente, adesso sì che ci siamo.
Dio Mio procede seguendo lo stesso stilema, abbondando nelle citazioni di genere più squisitamente basse e terrene (una notte buia e minacciosa, lo sapevi che andava a finire così, indietro non si ritorna: questo è poco ma sicuro), e rendendo chiaro ormai qual è il gioco del gruppo: perseguire lo scopo già delineato dal Teatro delle crudeltà di Artaud, lo squarciamento di quella falsa realtà che oscura e falsifica le nostre vere percezioni, da ottenere tramite la ricerca, mediante simbologie, del giusto punto di collegamento tra testo e significato. Lo fanno scegliendo come narratore (che addirittura dice prima delle canzoni: senti questa che è bella!) un misto tra una versione ubriaca del Suonatore Jones di Edgar Lee Master/De Andreiana memoria e il Carmelo Bene più inquietante: ne risulta un raffinato poeta di strada che ne ha viste di tutti i colori, che un po per la sua condizione e un po per lalcol che gli scioglie la lingua si può permettere di cantarle a tutti.
Capovilla regge sui testi gran parte della forza di questo album: e il gioco funziona davvero bene proprio perché non sono presenti solo riferimenti continui al genere maledetto (cè Baudelaire un po ovunque, soprattutto nella prima parte), ma anche saldi riferimenti al genere cantautoriale italiano, De André su tutti. E mentre si è trascinati dai contenuti, quasi non si dà attenzione alla forma, cioè la musica, che pesca liberamente ma intelligentemente e con grande sapienza tra gli amori di sempre dei quattro: Shellac, Melvins, Birthday Party, Jesus Lizard, a conferma, se ce nera bisogno, che questi quattro ragazzi non sono solo intelligenti ma con gli strumenti ci sanno anche fare davvero, e che la riflessione in questo album non si ferma solo ai testi.
Si raggiunge lapice della sbornia nella riuscitissima E Lei Venne!, favola maledetta tra gli episodi più belli, prima che lalbum svolti verso una dimensione più impegnata con Compagna Teresa, che già dal titolo suggerisce come Teresa sia la personificazione di unideologia (lo sai con te muore ognuno di noi), e lo scarto è compiuto definitivamente con DellImpero Delle Tenebre, dove si capisce perché i quattro abbiano dichiarato che questo, in fondo, è un album politico: se la prendono, qui e nelle tracce successive, coi castelli di carte del re, con la memoria del XX secolo, con le mine made in Italy, con la televisione, con la guerra, che cè ma è tutto ok, suggerendo come soluzione un Carroarmato Rock!, che ci faccia morire di musica e non di paura.
Non cè più voglia di far polemica ma lalcol fa ancora effetto, ed affiorano adesso i sentimenti più intimi, quelli inconfessabili: Il Turbamento Della Gelosia traghetta con un finale stupendo lalbum verso la sua ultima dimensione, quella più intima, più nascosta. Ma dalla gelosia, dalla solitudine di quel bambina mia, quanto mi manchi, parte la regressione totale allo stadio infantile, e lubriaco vorrebbe ritornare piccolo, ripensa ai momenti felici della sua infanzia, prima che diventasse quasi obbligatorio, da grande, affogare nellalcol lamarezza di unesistenza comunque balorda, e rivolgendosi allamata stravolge il legame affettivo che li lega sublimandolo in un amore filiale. Forse è proprio nella citazione da Truffaut presente in Lezione Di Musica che Capovilla e tutto Il Teatro Degli Orrori tocca il suo apice emotivo.
Lalbum volge al termine, lo si capisce perché ne La Canzone Di Tom, Tom se nè andato via, per sempre, e Tom, che riesce ad illuderci di essere ancora tutti vivi, è forse proprio quel suonatore/narratore attraverso il quale tutto lalbum si racconta. Ma non è per dirci che Tom se ne è andato che Il Teatro scrive questa canzone, ma per dirci che cantare una canzone è non dimenticarti più, averti sempre con me, e che uno di questi giorni la farò finita pure io.
Pare labbia fatta finita davvero, e comunque lavventura di questo disco finisce davvero, in Maria Maddalena, unica canzone dove la componente mondana, il campionario delle emozioni umane lascia spazio alle sensazioni ultraterrene, religiose, in una sorta di marcia che pare lascesa al paradiso degli ubriaconi.
E un disco bellissimo, fatto da gente che ama la musica veramente. Unopera maiuscola che sorprende per lo spessore dei contenuti e la raffinatezza musicale, solo velata dallapparente attitudine lo-fi e casinara della produzione. Una ventata daria pura e freschissima in mezzo al fetore stagnante del rock-pop italiano da classifica, un concept-album anomalo, tenuto insieme dalla passione di chi crede ancora nella musica come arte.
Un piccolo miracolo, tutto italiano. Ma a pensarci bene, un miracolo non può essere piccolo, né italiano: è un miracolo e basta.
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