Il Teatro Degli Orrori
Il Mondo Nuovo
“Ci piace l’idea di fare un concerto rock che non sia il solito concerto rock, ma sia qualcosa di più, che abbia un elemento teatrale e soprattutto che abbia un elemento attoriale […] Musica per il cervello, non musica per i piedi. Se vogliono andare a ballare vadano a ballare, vadano dove vogliono loro… ad esempio: vadano affanculo!” (Pierpaolo Capovilla, 2008)
“Abbiamo dato il massimo in un arco temporale densissimo, due anni e mezzo di concerti su e giù per l'Italia, due album in poco tempo... a 44 anni la stanchezza si fa sentire!” (Pierpaolo Capovilla, 2012)
Che Marghera sia davvero più bella di Skopje? Scava come un tarlo, il dubbio, a zig zag tra velleità autoriali, dissonanze rintronanti, chitarre acustiche ed archi, micidiali bassi elettronici, urla e carezze, scariche di adrenalina, pause di riflessione e momenti di buio completo. Scava per quaranta, cinquanta, sessanta minuti. Scava senza riemergere, anzi, affondando sempre più gli artigli man mano che i minuti scivolano nell’anonimato. E poi, dal nulla: l’hai mai vista una BMW volare? A me è capitato, qualche volta. Senti questa qui, che è bella. Come Herbie, il maggiolino tutto matto, con una sequenza di grugni luridi e marci al posto della sorridente dentatura da lattante. Era una sgraziata favola rock’n’roll, di quelle che ricalcano tutti i luoghi comuni della migliore esperienza di strada, si sedimentano nella memoria ed entrano a far parte dell’immaginario comune, con un coefficiente pressoché incalcolabile di intercambiabilità. Grezza e (im)matura. Poi – ma non spifferatelo alla Polstrada: qui la chiamano politica, un nome strano nell’elenco del questore – è arrivato il momento in cui, semplicemente, ci si è stancati di una certa tenuta e si è provato a modificarne la struttura. Additivi nel carburante, verniciature luccicanti, marmitte catalitiche. Ancora più sudore, ancora più spettacolo. Un bijoux. Figlio mio, ci pensi un giorno: tutto questo sarà tuo! Ora che è arrivato il momento della sospirata eredità, siamo ancora così sicuri di pretenderne i frutti? “Niente è più difficile che vivere una vita in disparte”, canta Pierpaolo Capovilla in “Pablo”. Sei d’accordo, Daniele?
I pregiudizi, ahimè, questi infingardi. E le premesse, già apparecchiate e pronte, spesso illusorie. La vigilia de “Il Mondo Nuovo” è stata un coacervo di premesse e preclusioni tutt’altro che rassicurante: due dischi diversi ed entrambi portentosi, prima di tutto, alle spalle, e in contemporanea un successo di dimensioni galattiche, un alito di speranza diventato vento, tempesta, colma di aspettative. E quando un disco è circondato dalla patologica attenzione dell’attesa, le aspettative vengono mortificate, il più delle volte. Mettici, nel mezzo, una dolorosa frattura tra i componenti della band e il ritorno alla formazione dell’esordio, le critiche e le pernacchie per un titolo (involontariamente?) simile – è un eufemismo – a quello di un disco di un paio d’anni prima di uno dei più talentuosi tra gli usciti dal gruppo, citazioni huxleyane a parte (per non far nomi, “Il Nuovissimo Mondo” di Bologna Violenta – aka Nicola Manzan), le voci della collaborazione con Caparezza, eccitante per le masse, maleodorante per l’indie viziato della prima ora. E poi il lancio di un video oggettivamente brutto a corredo di un singolo soggettivamente bello, e un minutaggio prepotente, indizio di un’epica didascalica o semplicemente prolissa. Poi arriva il disco, e quello che ti resta è starlo ad ascoltare, il pregiudizio va a farsi benedire, anche se l’idea che ti fai lo sfiora mentre gli passa oltre. Tutti i lavori de Il Teatro Degli Orrori, a loro modo, hanno meritato dignità di concept. Questo lo è più degli altri, ed è il suo vero limite. Parlami di quello che vuoi (dell’immigrazione, in questo caso) con pochi sferzanti concetti, e io rimarrò smarrito più a lungo: ammorbami di storie, e dormirò. Quando comincia, “Il Mondo Nuovo”, non vedi l’ora che finisca; quando finisce, non vedi l’ora ricominci: il trittico con cui si congedano è tra le cose più commoventi che abbiano mai scritto.
Vero, verissimo: impetuoso è dir poco. Aria! Aria! Aria fresca e pulita, lievissima, purissima! Forse saprai, e saprete già tutti, che “Il Mondo Nuovo” si doveva originariamente intitolare “Storia Di Un Immigrato”, sorta di omaggio posticcio a De André che avrebbe riportato il tema principale ad una quadratura non richiesta e tanto meno esplicitata. Forse un caso che le gemme più convincenti siano quelle, nel contempo, più lontane dall’ingessatura prominente del formato concettuale? Non lo credo. “Doris” chiude il bilancio della fascinazione per i maestri del post-core, con una superba rivisitazione dell’omonima canzone degli Shellac – a chiudere il trittico dei maudit sangue e sudore, dopo “Dio Mio” (“Eyeball”, Scratch Acid) e “Mai Dire Mai” (“Nub”, Jesus Lizard) – sinuosamente combattuta tra strofe felpate, in preda a melodie sottilmente devastate dal palm mute, e ritornelli di virulenta rabbia contorta, sul finale, da notevoli epilessie noise (saranno mica le crisi esistenziali di una suora che compra il Corriere e ci nasconde il Manifesto dentro?). “Adrian” è l’impossibile anello di congiunzione tra la limacciosa oscurità dark-prog di “Maria Maddalena”, l’epico rincorrersi nella notte di “Die Zeit” ed i reading majakowskijani del tandem Capovilla-Ragno Favero, sette minuti e mezzo di favoloso teatro-canzone percorsi da una tensione innaturale e da un climax di sottrazione strumentale ad implodere nella catarsi rumoristica conclusiva. A “Vivere E Morire A Treviso”, un coccolare elettro-acustico sporcato da glitch e fiorire di grumi sonori sintetici, spetta il compito di lenire le ferite, riuscendo invece ad aprirne altre, più profonde e sottocutanee. Quasi sembrerebbe di assistere ad un altro miracolo, alla trasposizione debitamente eutrofizzata dell’ennesimo capolavoro. Sembrerebbe. Non fosse altro per la prima parte…
…che analizzo con piacere, se mi libero dal fastidio di questa rivoltella puntata sulla nuca. A partire da un terzetto iniziale in assoluta antitesi con l’ottimo epilogo: scialbo, quasi irritante, con quei cori posticci che intonano “l’amore forse è più importante della vita, ma questa vita è così importante” (“Rivendico”) e altre amenità che quasi fanno rivalutare, di contro, il singolo “Io Cerco Te” e il suo ormai celebre anthem “Roma capitale sei ripugnante: non ti sopporto più”. Non fosse per i fendenti chirurgici del basso di Favero, tre pezzi (il terzo è “Non Vedo L’Ora”) tutt’altro che imprescindibili. Da skip immediato, ahimè, anche il nu-metal pseudo tribale de “Gli Stati Uniti D’Africa” e l’elettronica stucchevole – anche nelle liriche – di “Monica”, “Pablo” e “Dimmi Addio”, probabilmente i passaggi più difficili da metabolizzare, gonfi di retorica e inutilmente diluiti. La retorica, ecco: uno dei limiti principali di questo disco. È vero, Il Teatro Degli Orrori, nomen omen, l’ha sempre adoperata come un coltello affilato, aggredendone l’involucro e sputandone i contenuti: un’operazione di – delirante – cesello divenuta marchio di fabbrica, e di cui sin qui si trovano davvero poche tracce. Funzionano, e bene, invece, le direzioni diverse intraprese nell’obliquo spoken word di “Cleveland – Baghdad”, con in bella evidenza le allusioni acustiche di Gionata Mirai, ancor più suggestive nella delicata “Ion”. E se “Skopje” si fa finalmente godibile sul finale pestone, la lezione degli esordi è tangibile nella commovente “Martino”, un saggio di bravura d’altri tempi, ma di questi luoghi. Ottima, e da un lato inaspettata, la resa di “Cuore D’Oceano”, che naufraga dolorosa (come la storia che racconta) nel magma sonico curato dagli inappuntabili Aucan e nei vorticosi giri di parole di un Caparezza mai così nervoso, mentre “Nicolaj” vive di profondissimi squarci e si fa magniloquente per raccontare una piccola storia d’amore e morte: “La Canzone Di Tom” ai tempi del Mondo Nuovo.
Qui nessuno ti dice la verità. Un tempo si sarebbe detto culo e camicia, e forse è la definizione migliore per questo tipo di analisi “biforcata”. Davvero poca cosa la prima parte, con “Rivendico” che è uno stampino leggermente più dissonante di “Per Nessuno”, “Skopje” gravata da orientalismi a buon mercato e, santiddio, “Gli Stati Uniti D’Africa”, che ambisce da subito al podio dei brani più brutti firmati dal quartetto tricolore e per la melodia, una pacchianata world con chitarrone pesanti riciclate dal peggio crossover anni ’90, e per le liriche, un trionfo di inconsistenza (“Gli Stati Uniti D’Africa, ma che splendida utopia […] / Non ci saranno mai, e poi mai”: qualcuno, anche alla luce della spocchiosa irritazione sfoderata verso noti colleghi di webzine, suggerisca a Capovilla – magari con un buon vocabolario davanti… – il semplice concetto di “appropriazione culturale”!). Dove in “A Sangue Freddo” si poteva parlare, giustamente, di ampliamento degli orizzonti, pregio che nel raffazzonato “A Better Man” dei redivivi One Dimensional Man diveniva semplicemente confusione, ora è questione di aver voluto scegliere troppi sensi in una sola mossa, annacquando le buone intuizioni dentro un mare di fisiologica stanchezza e sperimentazione poco mordente. Doveva fare un disco acustico per rilanciare la profondità della propria musica, Il Teatro Degli Orrori, lo aveva esplicitato a più riprese e questo, se si esclude la parentesi di Mirai con “Allusioni”, non si è concretizzato se non sporadicamente (in episodi dallo spessore peraltro notevole, come nella prima parte amniotica e progressiva di “Cleveland – Baghdad”). Infatuazioni elettroniche di dubbio gusto – terribile “Monica”! – tentativi di “epicizzare” la carica alcolica di musicisti maledetti, tormentati dalla distorsione, e spropositate ambizioni liriche nel concreto poi non realizzatesi hanno, di fatto, completato il quadro.
“Il Mondo Nuovo” parla di emigrazione, paure, speranze, dolori e, da non sottovalutare, di isolamento: quello dei personaggi, o quello di una band che, per la prima volta, si sente forse messa alle corde?
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