R Recensione

8/10

Guided by Voices

Devil Between My Toes

"Scrivo canzoni da quando ho nove anni; probabilmente ne ho scritte circa 500.” Robert Pollard  

Si dice che sia l’autore più prolifico in circolazione. Probabilmente se la gioca con John Zorn per quantità di dischi, side-project, collaborazioni e via dicendo. La cosa sorprendente è che per anni Robert Pollard, splendido maestro elementare dell’Ohio, è rimasto uno squisito “signor nessuno” che ha continuato imperterrito a mettere mano al proprio portafogli per produrre dischi sublimi come questo, lp d’esordio ufficiale che andò a a seguire l’ep Forever Since Breakfast di un anno prima.

Per carità non è che oggi Pollard sia l’idolo delle masse, ma il suo piccolo spazio di gloria ha cominciato a conquistarselo soltanto da metà anni ’90 (grosso modo con il successo commerciale di Bee Thousand nel 1994), a boom del mondo indie ormai avvenuto da almeno un lustro, confermando per l’ennesima volta l’enorme instabilità qualitativa dell’industria discografica.

Può apparire strano ma Pollard era un fottuto seguace del progressive rock più spietato: dai Genesis agli Yes, da Blue Oyster Cult a EL&P. Eppure tutta la sua produzione non è nient’altro che un’immensa enciclopedia del garage-rock-pop. Nonostante una certa influenza marginale della new wave (Pollard stesso manifesta amore per i Devo) le sue composizioni sono frutto di una profonda immersione nel profondo intimo essere degli anni ’60 e inizio ’70, da cui viene tratto pressochè ogni riferimento compositivo, melodico e sonico.

In Devil between my toes ci sono davvero poche eccezioni: Captain’s dead con la sua fulminea chitarra grezza e rude è l’unica cosa che ricordi l’evento intravisto del 1977 punk, peraltro in una forma Buzzcocks-iana ben addolcita da un morbido cantato pop. Il mondo wave invece è filtrato nei suoi esiti più prossimi a quell’indie-rock nato sulle ceneri del post-punk. Così Crux è uno sfrenato garage strumentale imbastardito da chitarre wave alla Television Personalities. A portrait destroyed by fire è invece un esempio di psichedelia acida floydiana (primo periodo) combinata a suggestive atmosfere dark-gothic di inizio ’80.

A ben guardare tutto il resto del disco non sembra superare la data del 1975. È vero che emerge qua e là l’impressione di sentire i primi REM, ma in realtà non è la band di Athens ad influenzare Pollard. L’impressione netta è infatti che sia Pollard che Stipe peschino direttamente alla fonte primordiale, giungendo di fatto entrambi a risultati molto simili. Ovviamente con l’ovvia precedenza cronologica dei REM, dovuta però anche ad una travagliatissima gavetta musicale dello stesso Pollard, che arrivò a stampare le trecento copie di questo Devil between my toes solo dieci anni dopo aver imbracciato la chitarra la prima volta, e ben quattro dopo la nascita ufficiale dei Guided by Voices, gruppo dalla line-up sempre estremamente fluttuante.

Ecco perché Cyclops è una ballata romantica e dolce che va ricondotta direttamente a Byrds e Big Star mentre Hank’s little fingers, con le sue sopraffine melodie vocali, è un pop squisitamente Beach Boys. È il jangle pop degli 80s insomma, la piena e nostalgica immersione in un mondo ormai lontano, ottenuta con rimandi colti (la struttura vocale alla Peter Gabriel nella roboante e tagliente Discussing Wallace Chambers) o spudoratamente accattivanti e freschi (il garage Nuggets che troviamo in Old battery, Dog’s out, Hey hey, spaceman).

Con la differenza fondamentale che se melodie e armonie sono figlie di quei tempi altrettanto non si può dire della qualità del suono, estremamente arrabattato e sfilacciato. È già il low-fi, in anticipo sui tempi rispetto ai vari Pavement e Sebadoh. Ma mica per volontà precisa, quanto per precisa necessità dovuta alla carenza di pecunia. Anche questo diventa però motivo ulteriore di fascino e determina una suggestiva aggiunta di essenzialità tenebrosa ai piccoli schizzi strumentali (3 year old man, A proud and booming industry, Artboat, Bread alone) posti strategicamente tra un brano e l’altro, ottenendo stacchi ritmici perfettamente coerenti con la struttura generale del disco, garantendo di non cadere in un’eccessiva spensieratezza estiva ma mantenendo una certa tensione emotiva di fondo.

A chiudere ci pensa The tumblers, incantevole intreccio dalle chitarre acuminate, ritmo borbottante e un cantato etereo e ammaliante. È un mix di dream-pop e rock low-fi che sarà alla base di ampia produzione dei 90s. Di fatto è già un gioiello indie alla Sebadoh. La cosa che più dispiace è che in mezzo a una sterminata discografia non si riesca a dare giusto risalto e analisi ai tanti gioielli sparsi tra le oltre 500 canzoni scritte da Pollard. Forse il tempo ci sarà amico, sperando che Pollard si prenda anche un po’ di vacanza creativa dandoci l’occasione di cantare degnamente le gesta della sua epopea.

V Voti

Voto degli utenti: 9/10 in media su 1 voto.
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C Commenti

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lovemetwee (ha votato 9 questo disco) alle 18:03 del 15 ottobre 2009 ha scritto:

yeeeeeeeeeeeeeah

e pensare che ha pure cominciato tardi a fare musica il Superpollard! e oltre ai citati c'è anche Capstan Shaft che sta cercando di rubargli il primato (2 album all'anno di circa 20 min l'uno..) e Woody Allen. hehe come azzo se fa a far due film all'anno??? mah.. bravi tutti, comunque.