Stephen Malkmus and the Jicks
Real Emotional Trash
Nome che pesa quello dei Pavement, sicuramente uno dei gruppi più importanti degli anni ’90 con all’attivo almeno due capolavori del rock melodico low-fi come Slanted and enchanted e Crooked rain, crooked rain. Poi nel 1999 lo scioglimento e l’inizio di due percorsi paralleli: da un parte i neo-costituiti Preston School of Industry, dall’altra il vecchio leader Stephen Malkmus ad avviare una propria carriera solista. L’esordio omonimo del 2001 però non migliorava molto la scarsa vena creativa degli ultimi Pavement, rivelandosi anzi null’altro che una timida e malriuscita copia dei fasti passati. Pig lib oltre a certificare l’esistenza di un collettivo al suo fianco (the Jicks, ossia Joanna Bolme al basso-tastiere, Mike Clarke alla chitarra e John Moen alla batteria) rivelava un’elevata ispirazione psichedelica rock vecchio stampo (tardi 60s e 70s) che con il solo brano strumentale 1% of one sembrava legittimare la separazione dal vecchio gruppo. Face the truth (2005) era una netta svolta che rimetteva all’angolo i Jicks e esplorava moderatamente le possibilità offerte dall’elettronica.
Real emotional trash rimescola nuovamente le carte, innanzitutto riportando sul palcoscenico i Jicks come primattori (con l’aggiunta di Janet Weiss, ex Sleater-Kinney, alla batteria) e non come comprimari imboscati di nascosto. Il peso di questa scelta è notevole e sembra stravolgere completamente il suono tipico di Malkmus riportandolo sul percorso abbozzato in Pig lib. Se è vero infatti che ricordi Pavement di ottima fattura fioccano ancora qua e là (le melodie low-fi ma curate di Cold son, l’incantevole pop di Out of reaches con assolo strappalacrime) si può dire che l’orizzonte generale è molto più heavy e psichedelico rispetto al passato. Basta sentire l’acidissimo intro alla Josh Homme di Dragonfly pie per accorgersene: ruvide scorze stoner-rock si alternano a motivi e ritornelli squisitamente popular in un saliscendi impeccabile per la sua continuità melodica. Il vecchio suono pop-low-fi diventa la base da cui partire per escursioni del tutto nuove (perlomeno negli orizzonti di Malkmus): lo conferma Hopscotch wille col suo inizio sbilenco e accattivante che apre dapprima a soffici divagazioni psichedeliche poi a tratti quasi noise e a marcati accenti blues-rock. Impressioni confermate da Baltimore, altro poderoso pezzo heavy che conferma un accentuato interesse per lo stoner e per i cari vecchi 70s.
Anche il lato pop, tutt’altro che oscurato, sembra tornare ulteriormente indietro nel tempo andando a mischiare motivi beatlesiani con i 90s: accade soprattutto con le semplici e modeste We can’t help you e Wicked wanda, ma anche nella poderosa Real emotional trash, notevole sforzo compositivo che supera i dieci minuti di durata e che spazia tra melodie maccartiane, low-fi pavementiano e chitarre vissute alla Neil Young fino al roboante finale a tinte stoner-rock.
E nonostante un paio di passaggi a vuoto (Gardenia e Elmo delmo) che contribuiscono a dare l’impressione che il disco sia troppo lungo (55 minuti in effetti nel complesso molto corposi) non si esita molto a conferire ai posteri la sentenza di aver appena ascoltato il miglior disco solista di Stephen Malkmus.
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