The Love Language
Libraries
D’accordo, bisogna ammettere che “Biblioteche” non è il titolo migliore per il disco dell’estate. Ma questo non cambia la sostanza: Stuart McLamb, dalla North Carolina, dopo aver debuttato l’anno scorso con un delizioso album di indie-pop retrò a bassa fedeltà, con il sophomore “Libraries” fa il salto di qualità definitivo (anche di etichetta: dalla Bladen County alla Merge) e regala la migliore colonna sonora per l’estate di questo glorioso 1964. Ehm, sì. 2010.
Già. La cifra dei Love Language continua a essere una glassa vintage spessissima e volutamente esibita, ma senza intellettualismi o finte farlocche. Qui regna il divertimento, con buona pace dei detrattori del ‘derivativismo’. Rispetto all’esordio, registrato con mezzi di fortuna e lo-fi più per necessità che per scelta, questo disco, con la produzione di BJ Burton, ci guadagna in ricchezza e densità, con frequenti trionfi di mastodontici walls-of-sound e arrangiamenti lussureggianti. Roba per animali da spiaggia e da party a tema: tra i Beatles ed Elvis, tra i Beach Boys e i suoni Motown, tra un’anima soul e una rock’n’roll (filtrata via indie), in un mare di melodie irresistibili, cori scanzonati, sdilinquimenti sinfonici, belcanto per ubriachi, tamburelli e scatenamenti da balera.
A partire da “Brittany’s Back”, guidata da un rullante ciccioso e da una tastiera avvolgente, con la voce di McLamb a prendere un ritornello killer, fino a “Pedals”, che si risolve in una specie di “Intervention” (Arcade Fire) ancora più epica e orchestrale: non c’è un pezzo che cali in questo “Libraries”. Le ballate sono un esplicito omaggio agli anni Sessanta e approfittano di crescendo spectoriani al limite dello spettacolare per scialacquare dolcezze sentimentali e romanticismo enfatico a go-go, tanto pacchiano quanto delizioso: roba da pomiciate al ballo di fine anno sotto la palla stroboscopica (“This Blood Is Our Own”: fate piangere vostra madre!) o da malinconie toccate dalla pioggia estiva (“Blue Angel”).
Dove, poi, il ritmo si alza, si gode e basta: dalla cavalcata twee di “Heart To Tell” al ricamo di glockenspiel di “Summer Dust”, passando per i cori e la coda quasi noise di “Horophones”, mentre la pausa di “Wilmont” serve per respirare i fumi folkish dell’America profonda. Il disco scorre con grande compattezza, ma in modo tutt’altro che monolitico: troppa freschezza per un effetto-noia.
Senza sovrastrutture, senza maschere, senza per forza doverlo fare strano: un piccolo gioiello pop, e un autore che è ormai una certezza, se non già un piccolo culto.
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