The Love Language
The Love Language
Ci risiamo. Stuart McLamb, da Releigh, North Carolina, è un giovanotto professionalmente instabile (è lui a raccontare lallontanamento dal suo ex-gruppo, The Capulets, causa intemperanze sul palco e non solo), sentimentalmente peggio (è lui a raccontare di bottiglie di birra lanciate contro il muro durante i litigi con lex), che trova il riscatto nella musica. Storia già sentita. E già sentita è pure la musica. Ma è gradevole. E tanto basti.
In pieno boom di indie pop lo-fi a stelle e strisce, la soluzione di McLamb (perché di one man band si tratta) è deviante solo per una maggiore contiguità, piuttosto che con la scena inglese dei primi Novanta, con le tradizioni americane country-folk, sopra cui si distende un brusio di fondo costante e spaventoso, ad aggiornare sporcandoli i suoni. Lascendenza autoctona è percepibile soprattutto in certe linee vocali molto sixties, oltre che in uso insistito, spesso quasi cabarettistico, del pianoforte (vedi primi Walkmen).
Sicché non è assurdo parlare di piano-bar per le sonorità sbilencamente sentimentali di pezzi come Two Rabbits, in apertura, o Nightdogs, dove spetta a una sporchissima chitarra ricamare riff che spostino la scenografia dal bar alla bettola di terzordine zeppa di ubriachi. È proprio questo romanticismo ebbro a caratterizzare lintero disco, e a depotenziarne la carica rock sciogliendola in un miscuglio di Beatles, Kinks e country da motel.
E così abbondano ballate semi-serie, sempre stracolme di feedback, sbilanciate verso la parodia dalla voce filtratissima di McLamb (che in Sparxxx tocca, in qualche urlo quello finale in primis , uno stile molto alla Casablancas) e dai cori sbrilluccicanti e vintage. E labuso esasperato del tamburello riporta il tutto dentro canoni folk: esemplare il ¾ pastorale di Manteo.
La zona migliore del disco, in compenso, è senza dubbio quella in cui la sponda stilistica è uno svaccatissimo garage rock: Lalita è la punta di diamante dellalbum, guidata da un riff zozzo di riverberi e da arpeggi distorti memori dei Pixies migliori, oltre che da un ritornello memorabile. Simile aria si respira nella corale Providence e in Sparxxx, che ricordano molto certe cose west-coastiane dei Thrills e dei Little Joy.
Ed ecco che Stu McLamb, coniugando pop, rock californiano e americana fritta nella distorsione, ha trovato il riscatto. Storia già sentita. Musica già sentita. Ma gradevole. E tanto basti.
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