R Recensione

7/10

Trivo

Emoterapia

L’emoterapia è in medicina “l’introduzione di sangue umano a scopo terapeutico sia per rifornire un organismo anemico o dissanguato, che per attuare un’immunizzazione passiva o per supplire a un deficit di costituenti plasmatici”. E questo concept-album (se ancora è possibile usare questo termine…) di Trivo sembra proprio avere alla sua base, prima di tutto, uno scopo terapeutico. Una cura,  un’autoanalisi, attraverso la musica, il suono e la composizione. Ne escono, in un inarrestabile flusso di coscienza, sentimenti neri, scurissimi come lo smarrimento, la malattia, il buio e la fine. Ma anche il bene, la risalita e la luce.

Un giorno, accompagnavo mio padre ad un ciclo di chemioterapia – racconta lo stesso autore, all’anagrafe Rocco Triventi, classe 1977, da Foggia – ero nella sala d’aspetto e guardavo la faccia di tutti quei malati che speravano di guarire. Io in realtà pensavo che quel trattamento fosse del tutto inutile per la loro salute fisica, ma probabilmente li avrebbe aiutati a sentirsi meglio moralmente. Così nella mia testa chemioterapia si è trasformato in emoterapia, ovvero la terapia per sentirsi meglio nell’anima”.

Tutto autoprodotto in casa, secondo logiche che più ARTigianali non si può (“Gli strumenti sono tutti suonati da me, come i testi, la grafica, la stampa sul cd, la confezionatura e la spillatura del booklet” rivela ancora Trivo) , il disco è un lungo excursus nei territori dell’anima di questo (a)tipico cantautore post-moderno. La produzione del cd  ­– grezzissimo productions – è già tutto un programma. Una dichiarazione di intenti. Diciassette pocket-sinfonie (nella maggior parte di due minuti due) di gustosissima pop-edelia casalinga. Squarci lirici e humor nero.

Cantautorato elettronico lo-fi. Canzoni dall’impianto squisitamente melodico come “Ho bisogno di qualcosa di cui non ho bisogno” oppure “Nero”, sporcate da un suono che riprende quello delle audiocassette di un tempo e inframmezzate da improbabili stralci di trasmissioni televisive e suoni catturati dall’etere. Da un altro mondo, un'altra galassia. “Uno stile volutamente rozzo e genuino” come lo definisce lui stesso. In mezzo di tutto. Da discussioni davanti alla televisione dove una donna impone al marito di guardare una partita di calcio a degli psicologi robot(izzati) che ripetono all’infinito le stesse parole. E tante altre stramberie assortite.

“L’unica vera costante di tutto il disco è lo spirito con cui sono stai composti i pezzi – racconta ancora il musichiere foggiano –, e la voglia di non abbandonare le registrazioni in bassa fedeltà”.  Di certo la fantasia non manca al Nostro. Questo è sicuro. In pochi secondi si può passare da una melodia da carillon a un suono marcatamente hard-rock (o “heavy-mental” come preferisce definirlo lui stesso), si veda “La mia donna è un pagliaccio opulento”, oppure a lidi spietatamente elettronici come in “Talking to Van Vera”. E per quanto riguarda i testi la piega è ancor più sbilenca. Basti citare “La ballate dell’elefante suicida” (“Puzzo di vecchio, tutto su di me, come la pioggia, tutto su di te, la senti questa pioggia?”) o “Veronica ha un virus” (“Nel cuore della tana, c’è l’organo riproduttivo, del super animale…”) e avanti di questo passo.

Il riferimento più vicino è ovviamente quello di Bugo (primo periodo intorno a “La prima gratta”), anche se questo Trivo sembra per certi versi meno giocoso, più oscuro, ma per certi versi anche più melodico. Dopo questa prova spudoratamente lo-fi ora lo aspettiamo al varco. Verso produzioni più linde che possano raggiungere un pubblico più ampio. Il tutto, speriamo, senza perdere la sua aria sconvolta e stralunata. Le basi per riuscirci ci sono tutte.

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