Angel Olsen
My Woman
I want to die right / next to you
Così canta Angel Olsen, così canta emozionante, tormentata, prima del finale lungo e tumultuoso di Sister (pezzo numero sette di un decalogo stupendo), laddove due chitarre si incastrano nellabbraccio risolutivo. Così canta, e in quei due versi cammina lombra di Proust, che a diciannove anni compilò un questionario, rispondendo sottilmente migliore-e-amato, alla domanda come-vuoi-morire?
Poco prima, lo stesso Proust aveva risposto che la bellezza non è nei colori, ma nella loro armonia, alla domanda su quale colore preferisse. E di colori, in My Woman, ce ne sono tanti, tavolozza varia di tonalità fredde o calde, a comporre la tela monumentale, la tela definitiva, la tela testamento. Come Cezanne, Le grandi bagnanti, mille-novecento-sei, sarebbe morto in quello stesso anno, quadro da due metri per due metri e mezzo, il più grande da lui dipinto, secondo molti il più bello, blu lilla verde ed ocra, i colori si mescolano, samalgamano, trionfano.
Così My Woman è miscuglio di stili, epidermidi, sentimenti. Una ballata piano e voce (il congedo, Pops), e chi lavrebbe mai detto che Angel decidesse di sfilare la chitarra, anche solo per un poco, accadeva anche agli inizi, con Intern, così lynchiana, 80s, luccicosa, implorante (Pick up the phone / but I swear is the last time). Chitarre che però tornavano già in Never Be Mine, freschissimo pop estivo anni 60, con spolverata Alvvays. E poi sempre più prepotenti, le chitarre (Shut Up Kiss Me, Not Gonna Kill You), rock-grunge di un ventennio fa, col giro di accordi nirvaniano di Give It Up, e pezzi che potrebbero appartenere anche al suo lavoro precedente (Burn Your Fire For No Witness, 2014).
Ma è la seconda parte del disco, la vera sorpresa: più lenta, riflessiva, semplicemente bellissima, in cui emerge la produzione eccezionale. Batteria stanca e basso grondante (Heart Shaped Pool); arie jazzy e parole sussurrate, con un tono che ricorda quello di Tessa Murray (Still Corners), in Those Were The Days; i finali portentosi e che accelerano rispetto agli inizi (la già menzionata Sister o il vero miracolo, Woman, voce lasciva in un pezzo lunghissimo, con calma al centro, come a riprendere fiato dopo il primo amplesso, e poi ancora ed ancora ed ancora, la Olsen fa ciò che vuole con la gola, assoli di chitarra e si sussulta).
È la storia di chi scappa da un buco, quella di Angel Olsen, ginocchia grosse, naso a punta, piccola bocca esile dolce, come quella di un putto, la faccia tonda, di porcellana, liscia, una bambola, di chi scappa da un buco o forse da un pozzo, e tira fuori qualcosa. La storia di chi scappa e di chi si esprime, finalmente, emoziona perché parla un linguaggio che è di molti, lei che temeva di lavorare per sempre in un negozio di alimentari di St. Louis, nel Missouri, trecentomila anime, là fumare sigarette, fare nulla nella vita. Adottata da una famiglia, Angel Olsen, lultima di otto figli, osserva, incamera da fratelli e sorelle così diversi, così eterogenei, così più grandi da poter essere padri e madri, le dissero in unintervista che sembra che lei scriva canzoni come fosse una ragazza in fondo a un pozzo, profondo, dunque un po depressa, disperata, di certo malinconica, a tratti rabbiosa.
E tutto questo riaffiora in My Woman, tutta questa mescolanza di blu lilla verde ed ocra, come Cezanne, Le grandi bagnanti, mille-novecento-sei, trema il canto in Pops, ultima perla, un tremolio che ricorda Devendra Banhart: dont forget / dont forget / its our song, e ci si squaglia come quando cantava Windows, qualche tempo fa, migliore-e-amato rispose Proust alla domanda come-vuoi-morire?, e la Olsen se ne andrà migliore e amata da questo mondo, ché questo mondo ha fecondato, illuminato, sentito.
Tweet