Arctic Monkeys
AM
Chissà quanto avrà da pensare chi, all'epoca del debutto di Alex Turner e soci, sentenziò che entro una decina d'anni quegli sfigatelli brufolosi sarebbero stati dimenticati dal mondo. Da allora di anni ne sono passati sette e gli Arctic Monkeys rimangono saldamente al comando della propria scena: quante probabilità ci sono che fra tre anni si verifichi l'apocalittica sentenza di cui sopra? Ben poche, purtroppo per chi la formulò.
Del resto i dati parlano chiaro: quinto album consecutivo al numero 1 in GB, con 157mila copie vendute nella prima settimana, due singoli di lancio che occupano la top-20 in contemporanea, Metacritic che attesta "universal acclaim" sulla base di oltre trenta recensioni di portata internazionale, 10 sul New Musical Express, nomination in tempo record per il Mercury Prize, e un concerto - quello di Glastonbury - ritenuto all'unanimità l'evento live dell'estate 2013, capace di superare in termini di impatto persino lo show dei Rolling Stones.
Insomma è un trionfo, senza mezzi termini, e pure meritato, perché si parla di una band che occupa ormai nella storia del pop britannico un posto al fianco di nomi quali Jam e Blur, per portata generazionale e costanza qualitativa.
Partiti da un disco garage rock forse canonico a livello strumentale, ma contenente alcuni pezzi killer e soprattutto un cantante capace di giochi metrici bizzarri e di toccare coi suoi testi le corde emotive dei giovani d'Albione ("Whatever People Say I Am...", 2006), i quattro hanno quindi raffinato il suono e calcato la mano sulle stramberie strutturali dei brani ("Favourite Worst Nightmare", 2007). Poi con l'aiuto di Josh Homme si sono sottoposti a iniezioni di chitarre stoner ("Humbug", 2009), finendo a pubblicare nel 2011 "Suck It and See", manifesto di eclettismo senza barriere. In quel disco dalla copertina immacolata confluivano sia le loro precedenti anime garage e stoner, sia una serie di brani dai toni sognanti e ariosi, che mostravano una band ormai capace di maneggiare il pop chitarristico con assoluta disinvoltura, piegandolo sempre e comunque alla propria cifra stilistica.
Fatto tutto quello che si poteva nel proprio ambito utilizzando quasi solo le chitarre (giusto un po' di organo elettrico faceva capolino qua e là), era quindi ovvio che questa volta l'elettronica avrebbe detto la sua. Per andare incontro a questo importante ingresso negli arrangiamenti, "AM" è anche il loro album con la produzione tirata maggiormente a lucido.
Il brano d'apertura è "Do I Wanna Know?", con le sue chitarre stoner e un riff irresistibile, benché il beat (una solida cassa col suono snaturato dall'elettronica) faccia già intuire cosa accadrà in seguito. Essendo il pezzo più rock della raccolta, la già ben nota "R U Mine?" rimanda di un po' le sorprese, ma è difficile dispiacersene, essendo un pezzo incredibile: stop & go convulsi, serrati botta e risposta chitarristici, e un Turner scatenato, mai così funambolico nel prendersi gioco della metrica. "One for the Road" è il primo pezzo che palesa un'influenza che ricorrerà in diversi brani, quella dell'attuale scena R&B, con i suoi coretti esasperati e la batteria pesantemente effettata. Turner aveva del resto annunciato che l'album avrebbe spinto anche in quella direzione (ulteriore prova ne sia la recentissima cover di "Hold On We're Going Home" di Drake, registrata dal vivo negli studi della BBC).
Sfacciata, quasi a un passo da Justin Timberlake, è da questo punto di vista "Knee Socks", forse un po' maldestra. Turner è pero troppo intelligente per non tentare diversi approcci alla materia, come mostra "Why'd You Only Call Me When You're High?", dove il suo canto logorroico azzanna alla perfezione il beat R&B, riuscendo quasi a creare una nuova forma di musica rap. Sicuramente fra i momenti più alti della loro carriera.
Di indiscutibile fascino anche "Fireside" (con il suo ritmo sincopato e lo splendido assolo di tastiera), "Arabella" (che cannibalizza "War Pigs" dei Black Sabbath per poi sputarla in forme insospettabili), e il lentone "I Wanna Be Yours" (testo preso in prestito dal grande poeta punk John Cooper Clarke), che chiude il disco con un tocco di classe.
Probabilmente non si tratta del "miglior album della loro carriera" come graniticamente affermato altrove, ma del resto quando ci si imbatte in artisti capaci di ripetersi a simili livelli per più album, è molto probabile che ogni ascoltatore finirà con l'indicare un titolo diverso. Chi vi scrive parteggia ancora per "Suck It and See", ma si tratta appunto di sfumature: la verità è che gli Arctic Monkeys vanno presi in blocco.
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