Bilderbuch
Schick Schock
"I don't even speak German well
but it doesn't matter, does it?"
Già, non importa. Non importa, almeno stando ai nostri fini più immediati, che gli austriaci Bilderbuch in patria siano diventati un caso discografico con il qui presente Schick Schock (il loro terzo long playing, i precedenti improntati a un indie-rock post-Franz Ferdinand abbastanza personale ma di poco rilievo), entrato in Marzo in vetta alla classifica austriaca e ancora oggi saldo tra le prime venticinque posizioni. La stazza della band è talmente massiccia da farne immediatamente sfumare i connotati nazionali, rendendo secondari tanto l'invidia per un Paese che premia col disco d'oro un gruppo così astruso, quanto la comprensione del testo e il cantato in una lingua (oddio!) non anglofona. In ogni caso, qui il discorso principe è sviluppato - cosa tanto ovvia quanto spesso ignorata - sul piano prettamente musicale: i linguaggi contemporanei vengono ridefiniti in quello che è uno dei più radicali e stimolanti (oltre che divertenti) tentativi di modellamento di un nuovo idioma pop.
Ascoltando Schick Schock è come veder aggrumati in una sola esperienza Prince, Kanye West (un album come My Beautiful Dark Twisted Fantasy è stato, per loro stessa ammissione, un'importante fonte di ispirazione), Beck (una via di mezzo tra Odelay e Midnight Vultures), l'r'n'b di marca alternative e l'indie più o meno dance oriented degli ultimi anni, per un pop-rock camaleontico e contaminato come non mai. Il risultato è una proposta dalla quale trasudano ironia e groove, frutto di una creatività che rasenta la schizofrenia nella (indi)gestione della scrittura, strabordante di avventurose rivoluzioni interne ai brani, anch'essi costantemente manipolati contro ogni linearità e prevedibilità.
Ansia antinaturalistica, quella del quartetto viennese, che in Feinste Seide lambisce territori industrial, se non fosse che il beat incrociato è sincopatissimo e quanto di più lontano dalle quadrature EBM, laddove in Softdrink a configurarsi è un gioco meta-musicale sul corpo di una slow-jam, patchwork di campionario pop-art (Coca Cola, Fanta, Sprite / Seven Up, Pepsi, Alright / Alright! Alright! Alright!") con tanto di rapper ammerigano a intrudere e farci scompisciare. Sempre a proposito di ironia, obbligatorio gustarsi il video ultrakitsch di Om, altro singolo che del disco bene sintetizza la complessità organizzativa: gioiellino di r&b elettronico costruito su strati di samples melliflui e pitchati di chitarre, rhodes e synth, il tutto condensato in una sorta di ondeggiante nebulosa che nel ritornello si gonfia ulteriormente, dando il via ad un inesorabile/glorioso crescendo.
E se è vero che, tra le nostre premesse su come meglio guidare all'ascolto, v'era quella di non dare troppo peso al germanico idioma, è parimenti innegabile che quest'ultimo si riveli elemento non proprio prescindibile ai fini del risultato. Il tedesco, nelle mani del candeggiato cantante Maurice Ernst, si trasforma in una lingua stranamente sexy, le cui spigolosità vengono come arrotondate dalla dizione, dalla metrica pensata a blocchi intonativi/ritmici, dalla varietà di stili vocali messi in mostra. Proprio la versatilità del frontman è un primo spunto di riflessione: (sornione) animale da palcoscenico, improbabile eppure efficacissima (caricatura di) sex-symbol crucco, Ernst è del sound il fluidificante (a differenza dell'addensante bassista Peter Horazdovsky, al quale spetta più di altri l'onere di dare compattezza all'intruglio), oltre che primo appiglio visivo/sonoro per il popolo - cioè tutti noi - di Youtube. Fate caso a come assecondi - la voce quasi un tutt'uno con la ritmica - le spirali ipnotiche di Spliff, come il suo falsetto occasionalmente deformato dall'autotune irrompa nel soul-rock futuristico/emotivo (oltreché bello in modo indicibile) di Gibraltar, a come raddoppi il flauto su Rosem Zum Plafond (Bresser Wenn Du Gehst) proponendosi quale versione hot di Damo Suzuki (Can), e capirete al volo cosa intendiamo.
Altro elemento chiave è un chitarrismo praticamente reinventato. Micro-riff funky spezzati, sprazzi timbrici risultanti dai trattamenti più disparati, assoli destrutturati e scomposti: in queste dinamiche si respira una libertà sintattica senza limite che prende il concetto di guitar hero e lo butta nel cesso riuscendo ugualmente a generare un'aurea mitica attorno al chitarrista-alchimista Michael Krammer (anch'egli icona visiva come pochissimi altri in circolazione). A chiarire l'antifona basti lo stoppato in Om, essenziale quanto catartico, o ancora la tessitura dei licks di Feinste Seide (la grana delle sei corde varia di continuo, passando dalle modulazioni arabeggianti della frase principale ai riff heavy di bridge e refrain), gli assoli in modalità frippertronics di Barry Manilow, quelli filtrati all'impossibile di Plansch, gli accordi energici e marziali di Maschin e della Title Track. Aggiungete all'impasto tastiere di ogni tipo, trucchi di studio a piovere, nonché un batterista in carne e ossa, Philipp Scheibl, solidissimo e avventuroso nel flirtare con la tecnologia, e forse vi sarà possibile avere un'idea (per quanto infinitesimale) di come suona Schick Schock.
I Bilderbuch, dal canto loro, stanno lì proprio per mostrarci quanto siano auspicabili (necessari, anzi) i contatti tra rock e new r&b/pop-rap, specie se gestiti con simile creatività. Il tutto, ricordiamolo, a beneficio del rock stesso, per consentirgli di continuare a vivere e respirare, di stare al passo coi tempi. Se ci sono arrivati in Austria (illustre nazione che tanto ha dato alla musica fino alla prima metà del '900, ma il cui contributo in fatto di pop non pare tra i più irrinunciabili), non si capisce perché non potrebbero arrivarci e in parte ci stanno già arrivando - in altre zone del globo terracqueo.
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