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R Recensione

5/10

Death Cab For Cutie

Kintsugi

Sono sempre più impeccabili, i Death Cab For Cutie, man mano che gli anni passano (18 dal loro debutto), e ciò equivale a dire che sono, anche, sempre più prescindibili. Lo ha intuito l’anima nascosta della band, Chris Walla, che ha dichiarato di gettare la spugna proprio poco prima che questo “Kintsugi” fosse annunciato. Per la prima volta la produzione è affidata, dunque, ad altri (Rich Costey), e per la seconda volta, dopo lo scorso, mediocre, “Codes And Keys” (2011), l’impressione è che il taxi sia davvero quello della morte.

Il disco scorre sulle corde di un indie rock standardizzato, tutt’al più piacevole dove ricorda i New Order degli anni ’90 (“The Ghosts of Beverly Drive”), interessante dove si denuda in vesti folk, come d’altronde già da repertorio (“Hold No Guns” come una “I’ll Follow You Into the Dark”), stucchevole dove viene filtrato da una produzione da arena in stile U2 (“Everything’s A Ceiling”, a cui bastano dieci secondi per invitare fortemente all’ascolto del brano successivo). Ben Gibbard sembra sempre più appiattito sulle storie che racconta, e davvero nessuna profondità o visceralità scaturisce dalla precisione professionale degli arrangiamenti o dall’interpretazione vocale, nemmeno negli episodi in minore (“Little Wanderer”). Il resto è soprattutto noia ("Black Sun" esemplifica).

La sensazione è che l’aura di band infighettatasi e imparaculatasi senza speranze di cui i Death Cab For Cutie hanno iniziato, loro malgrado, a essere circonfusi in patria non vada tanto distante dalla realtà. Kintsugi è l’arte giapponese di riparare oggetti in ceramica con l’oro. Forse invece occorreva il sangue.

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