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R Recensione

6/10

Dub Trio

Another Sound Is Dying

Another Sound Is Dying”: un altro suono sta morendo, e i Dub Trio ne sono i principali artefici.

Ma siamo sicuri che quei resti cinerei non possano essere balsamici, e fautori della nascita di un nuovo ibrido, magari migliore del suo, ormai sfiancato, predecessore?

Siamo sinceri: la prima cosa a cui pensiamo, quando sentiamo nominare l’eclettica Ipecac, è il suo patron Mike Patton, singolare personaggio che, da vent’anni a questa parte, sta cercando di smuovere più in là i confini della musica, sia in prima persona – con soddisfacenti esperienze discografiche del calibro di Tomahawk, Faith No More e, soprattutto, Mr. Bungle – sia indirettamente, attraverso, per l’appunto, la Ipecac. Non è un caso, infatti, se Patton è particolarmente amico di un altro losco individuo, tale John Zorn, che in quanto a pazzia è maestro e in quanto a genialità sregolata è uno dei portabandiera più fieri e longevi.

I Dub Trio sono uno fra gli esperimenti più audaci ed interessanti del Patton ultimo periodo, che li ha scoperti e scritturati non più di qualche anno fa. Se è vero che, solo dal nome, già la si può dire lunga sulla propria personalità, gli americani sono un vero e proprio libro aperto: si deduce che siano in tre (perdipiù, anzi, l’ideale schema del power trio: basso-chitarra-batteria) e che, in qualche modo, siano legati alla musica giamaicana, il reggae, magari nella sua derivazione più bassa e pulsante (quel dub che molti occhieggiano senza averne motivo). Corretto, almeno fino a questo punto: ma è proprio qui che entra in gioco il fattore Ipecac, e le carte in tavola si scompaginano inaspettatamente.

Perché, signori e signore, i Dub Trio suonano quello che potrebbe essere definito dub metal.

Sebbene la definizione, prontamente coniata al momento e sicuramente orrenda nella sua semplicità recensorea, possa essere oggetto di sospetto per le orecchie più sensibili e meno adattabili al sempre più congruo numero di incroci sonori, spesso impensabili, formatosi via via negli anni passati, si avrà sicuramente da chiarire che di complesso, nell’egemonia del Dub Trio, non c’è veramente nulla, o quasi. Il risultato finale è affascinante, ma gli ingredienti a disposizione dei Nostri, alla fin fine, non sono certo raffinati ed oligarchici come si sarebbe potuto pensare ad un primo acchito.

Una discreta foriera di pezzi (quattordici), tutti strumentali – se si esclude “No Flag”, dove spunta a tradimento quell’istrione di monsieur urlatore Patton –, un’ora complessiva di divertimento tout court e gretto funambolismo politematico. Il gioco degli opposti è puro intrallazzo per i tre musicisti, che sono i partecipanti di un estenuante ping pong elettr(on)ico, senza possibilità di schiacciate vincenti. L’inizio è subito deciso e ben ponderato: il crossover contaminato di “Not For Nothing”, con il basso arroventato a dovere che gira su interessanti andature ragga-doom, immediatamente seguito dal dub in salsa Rage Against The Machine, con tanto di clangori industriali e sventagliate di doppio pedale in sottofondo, della più che convincente “Jog On”.

Quando il gioco si fa duro, dicono, i duri cominciano a giocare. Ed ecco che i Dub Trio chiosano dei brani davvero niente male, dove prima si permettono il lusso di abbassare le chitarre in favore di sola base e percussioni (la sinuosa “Mortar Dub”), poi le rialzano a tradimento, in un gioco di guardia e ladri che può ricordare il nu metal à la KoЯn vecchio stampo, con improvvise intuizioni melodiche a contornare il tutto (“Regression Line”), ed infine uniscono le due cose, spruzzandoci sopra sorprendenti estratti glitch degni delle migliori atmosfere dei Mogwai (“Felicitation”). Da annotare anche la semi-acustica “Respite”.

Spiace, dunque, arrivare a questo punto.

Perché, dopo avere incensato in lungo ed in largo l’opera da più punti di vista, si arriva in coda con una manciata di canzoni sinceramente insapori, che non aggiungono più nulla sotto un profilo qualitativo ma, anzi, sembrano essere create solo ad uso e consumo rapidi e senza troppe pretese. Sembrano i vecchi System Of A Down, quelli di “Safe And Sane”, ma non hanno lo stesso potere né la stessa incisività: in “Agonist”, i Dub Trio osano moltissimo e mettono alla rinfusa la psichedelia viscerale dei Doors con il classico dub e con incursioni post rock, ma alla fine il troppo stroppia e l’ascolto diviene difficoltoso, in mancanza di un buon collante carismatico che possa legare il tutto; le dissonanze metalliche di “Fuck What You Heard” attirano all’inizio, ma quando la trama affoga nel già sentito la traccia viene puntualmente skippata.

Per fortuna arriva la classica boa di salvataggio, e più che un galleggiante, assomiglia ad un dirigibile pieno di idee, finalizzate tutte al meglio. Un martello pneumatico che scioglie il math rock geometrico dei Battles con un piglio N.W.O.B.H.M. alla Maiden, senza dimenticare i rintocchi ragga che, opportunamente centrifugati, donano al tutto un’aria libertina e decisamente profana. Se foste interessati, cercate sotto “Bay Vs. Leonard”. L’ideale seguito di “Atlas”.

E, se foste ancora indecisi sul procurarvi o no il disco, ricordate che i gatti vampiri dell’artwork vi osservano e sono pronti a saltarvi addosso, alla minima indecisione.

Another Sound Is Dying”: ma alla fine, non importa così tanto.

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REBBY 6/10

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