Earlimart
Mentor tormentor
Il pianeta indie è davvero sterminato e compiere un censimento dei suoi abitanti sarebbe unimpresa forse troppo ardua da compiere a livello individuale. Riuscire a immergersi in questo enorme calderone e uscirne scopritori di nuovi gruppi e artisti davvero meritevoli è sicuramente una sfida ardua, ma molto stimolante. Riuscire però a effettuare una critica efficiente di tutto quello che si incontra per strada non è cosa così semplice.
Oggi il grosso problema dellindie è il suo scadimento (probabilmente già avvenuto da anni) da mera attitudine (produttiva prima, etica e intellettuale poi) a un vero e proprio stile, genere musicale ben riconoscibile. Per quanto sia difficile riuscire a delimitarne i confini oggi capita troppo spesso di ascoltare un disco e di capire subito che vada classificato nello scenario indie. Questo a mio avviso è un grosso difetto perché quando il cervello arriva a comprendere immediamente la musica che filtra nellaria vuol dire che il cuore ha già provato più volte quelle emozioni procurate dalle note inflazionate.
E quando una canzone si specchia in un modello antico per quanto mi riguarda sarà sempre ontologicamente inferiore a qualsiasi suono coraggioso che osi avventurarsi nellignoto.
Quando però ti capita tra la mani un gruppo come gli Earlimart, capaci di sfornarti tre dischi uno più bello dellaltro i dubbi cominciano a scuotere questi ragionamenti. Perché se è vero che il gruppo californiano (Los Angeles rulez) riesce a colpire testa e cuore come un fulmine con melodie romantiche dannata è anche vero che lintera loro carriera non sembra altro se non una ripresa e unesasperazione di temi e melodie sfornate in primis dal grande cantautore (recentemente scomparso) Elliott Smith. Dallesordio Kingdom of champions (2000) a Treble & tremble (2004), passando per Everyone down here (2003) gli Earlimart sono riusciti a ricreare le magiche atmosfere che caratterizzavano capolavori come Roman Candle e From a basement on the hill.
Il confine tra scopiazzare e prendere spunto è sempre estremamente labile, daltronde in questo caso non ce la sentiamo di ridurre questo gruppo a una semplice copia-figurina. La personalità di Aaron Espinoza (cantante e anima del gruppo) è intensa e suadente e le strutture sonore hanno finora mostrato di saper spaziare verso suoni investigati altrove anche da Sparklehorse, Yo la Tengo e Grandaddy.
La progressiva accettazione di forme sempre più lente e intimiste ha forse intaccato il sound potente degli esordi ma ha favorito un legame di maggiore complicità emotiva con lascoltatore. Limpressione è però che lequilibrio ancora molto ben bilanciato in Treble & tremble mostri qualche consistente crepa in Mentor tormentor con unabbondanza eccessiva di brani lenti (pur intensi) che scade a tratti in momenti piatti e sonnolenti (Dont think about me, Cold cold heaven) cui non riescono a sopperire le poche accelerazioni di pregevole fattura (Everybody knows everybody, Fakey fake, 700 100) né leggiadri coretti in falsetto (Gonna break into your heart).
Mentor tormentor non è un brutto album ma esagera nel voler ricreare quasi filologicamente bozzetti dautore sulle tracce del maestro Elliott Smith. E questo il caso della stragrande maggioranza dei brani del disco, dallelegante Bloody nose allintima e leggera Answers and questions passando per Just beacuse e The little things. Una serie di canzoni romantiche quasi sussurrate che mostrano però troppo spesso poca ispirazione (la preghiera The world, la ripetitiva Nothing is true in conclusione) e che comunque soffoca lascoltatore con una malinconia fin troppo melensa.
Era meglio forse concentrarsi su composizioni sfavillanti come Nevermind the phonecalls dalla melodia accattivante (resa soprattutto dallincantevole giro di basso) e dalle chitarre più graffianti. Invece troppo spesso chitarra e pianoforte sono relegati ad un mero accompagnamento quasi mortificante per i dotati musicisti del gruppo.
Ci rimane comunque un discreto disco, senonchè il minore della finora ottima discografia della band. Peccato, si poteva fare di più.
Tweet