R Recensione

6/10

Envelopes

Here Comes The Wind

Un paio di anni fa, durante una cena estiva a casa di amici, incontrai un simpatico svedese giramondo. La discussione cadde ben presto sulla musica, essendo il suo paese un produttivo esportatore di band più o meno gradevoli, ma sempre a loro modo curiose. Il caso ha voluto che in quel periodo stessi ascoltando il debutto degli Envelopes, band di Malmoe (ma con una vocalist francese) tra l'indie e il twee-pop; lo dissi con baldanza allo svedese giramondo, e lui, pacioso, mi rispose di essere un caro amico del loro ex bassista. Ex bassista, mi informò, perché il successo inatteso del primo disco aveva portato a discordie finite con il suo allontanamento, mentre gli altri membri si relegavano in un rifugio nella campagna inglese alla ricerca di compattezza e nuove idee.

La soluzione dell’esilio collettivo non mi ha mai dato l’idea di funzionare (vedere, per restare nella Svezia recente, alla voce Saybia), sicché la mia attesa dei nuovi Envelopes era condita di sana diffidenza. In effetti il risultato non è propriamente un bijoux: "Here Comes The Wind" prosegue nella linea giocattolosa e dadaista del debutto, "Demon", senza averne, però, la genuinità e l’incoscienza.

Il sound sgangherato delle buste, certo, continua a mescolare generi e influenze, con mosse squilibrate e a tratti deliranti, al limite del demenziale, isolandosi dal filone dell’indie-rock più sregolato (Architecture In Helsinki, I’m From Barcelona, Los Campesinos!) nel nome di un fondo più rozzo e tagliente, tra i Pixies e la cultura punk scandinava (The Hives su tutti). Quello che manca, in un quadro tutto sommato apprezzabile, è la capacità di dare respiro alle idee, di coinvolgere nel gioco anche chi ascolta, di reggere per un disco intero.

"Frejazz", ad esempio, è una sconnessa successione di suoni dissonanti e parole sgrammaticate che rasenta il camp, ma che non lascia il segno. Preferibili, rispetto agli esperimenti più estremi ("Put On Hold", electro-punk con citazione iniziale alla robotica krafwerkiana; "I’m In Love And I Don’t Care Who Knows It", ascoltando la quale si può ancora sentire l’odore dell’alcol che l’ha verosimilmente generata), i momenti più melodici: "Heaven", neo-glam romantico che rifà il verso ai Pixies e agli Sparks di "Never Turn Your Back On Mother Earth"; le cavalcate dall’aria country "Smoke In The Desert, Eating The Sand, Hide In The Grass" e "Life On The Beach". Irresistibile "I’d Like 2 C U", che parte con una tonalità per cambiarla dopo quindici secondi: musica de-strutturata, imprevedibile, che prende una filastrocca e la estenua di ripetizioni scombinate. Mattoncini Lego assemblati da un pazzo.

Il tutto è condito dalla voce puerile di Audrey Pic (quasi imbarazzante in "Boat", folk infantile con coda nonsense), da coloriture vivaci, toni avvinazzati, cori scanzonati, rimandi ludici, come se i B52’s fossero stati immersi in un mix di birra, limonata e vernice gialla. Che poi il disco abbia una copertina brumosa degna dei Canti di Ossian conferma soltanto l’alto grado di follia della band, e segnala che qualcosa, dalla reclusione alto-britannica in cerca di idee, è almeno scaturito. Non un disco memorabile, ma un tocco estetico del tutto incongruo. Piuttosto di niente, meglio piuttosto.

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