Foals
Holy Fire
Three is a magic number, e stavolta non ci sono telepromozioni di mezzo. Il Fuoco Sacro dei Foals "versione 3.0" è il solenne, appagante superamento delle due patologie sinora mostrate dalla band di Oxford: la math-isteria (il pur pregevole Antidotes, 2008) e l'afro-narcolessia (Total Life Forever, 2010). Ora si fa sul serio, e per aver chiaro il concetto basta sbirciare i credits, dove campeggiano i nomi di Flood e Alan Moulder a co-gestire produzione ed engineering. Della serie: quando una band dalle idee finalmente chiare incontra simili scultori/architetti del suono (nonché sogno bagnato di un musicista su due), non possono che essere scintille. Da consumati personal trainer chiamati a rimettere in forma la indie-star di turno, i Nostri concordano col gruppo un programma al quale attenersi rigidamente. Tre gli step fondamentali: ingrassare le ritmiche, fluidificare il lavoro delle chitarre, disciplinare la voce. Tre semplici (si fa per dire...) regole che fanno di Holy Fire il masterpiece che è. Ma vediamole più nel dettaglio.
In primis, basso e batteria: corposi, precisi, si lasciano alle spalle le esaltate e troppo spesso esili polluzioni di molto new-rave che fu, ponendosi anzi come immediato shock uditivo per definizione di timbri e dinamiche. Il loro interplay, ora ricco di groove (Everytime), ora felinamente angolare (Providence), pare ipotizzare una mutazione in senso 2010s dei canoni AOR a cavallo tra '70s e '80s, con la sezione ritmica composta da Walter Gervers e Jack Bevan a ricalcare le orme delle premiate ditte Rick Willis/Dennis Elliott (Foreigner) e David Hungate/Jeff Porcaro (Toto). Per quanto concerne il capitolo chitarre, si noti come l'approccio math venga stemperato in una placidità figlia di certo rock psichedelico inglese dei primi '90s (i Verve nell'acquatica Prelude), quando non irrobustito nei suoi caratteri hard (il cataclisma Inhaler), lasciando a tastiere e strumentazione accessoria o lo spazio per le coloriture (ecco i rhodes di Late Night, le marimba di Out Of The Woods) o, più raramente, l'incombenza di provvedere all'ossatura della canzone (i synth spacey a flirtare coi sovratoni delle sei corde in Moon). Una varietà gestuale che ottimizza la densità del mix senza minare la compattezza stilistica del materiale, il quale può ora beneficiare anche di un cantato su misura (step n. 3): tenuto a distanza tramite echi ed effetti quando v'è il rischio che risulti troppo intrusivo (anche considerate le non eccelse doti canore di Yannis Philippakis), esaltato nel suo afflato melodico laddove l'emotività la fa da padrone (Stepson, Bad Habit).
E basta il bridge tutto in crescendo di Inhaler, progressione destinata a sfociare in un ritornello che è pura destabilizzazione sensoriale (sembra d'ascoltare gli Happy Mondays di Bummed nel bel mezzo di una tempesta hard-rock), a dissipare ogni dubbio sulla raggiunta consonanza tra cornice sonora e maturazione di scrittura. Perchè, sì, va bene la storia delle tre regole d'oro e il team Flood & Alan Moulder e i sogni bagnati, ma senza grandi canzoni e i singoli My Number e Inhaler sono solo due delle tante - Holy Fire sarebbe soltanto un album splendidamente prodotto, non il concentrato di bellezza che è. Un album che ci parla da spazi incontaminati, come la meravigliosa copertina sembra suggerire, trasudante determinazione e terrigna spiritualità (secondo Philippakis è stato il gospel l'ascolto ossessivo durante le session). Signori, il 2013 è finalmente cominciato.
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