Frog Eyes
Paul's Tomb: A Triumph
Dellaffollato carrozzone canadese i Frog Eyes sono sempre stati, sin dallesordio (The Bloody Hand, 2002), la punta più spastica e sperimentale, così come tra i diversi stacanovisti della scena indie rock con la foglia dacero (da Spencer Krug a Dan Bejar) il loro leader Carey Mercer si è via via distinto come il più imprevedibile e il meno incline ai compromessi con la melodia: Tears Of The Valedictorian, tre anni fa, rivelò con pezzi di accecante bellezza (cosera Bushels?) lequilibrio che i Frog Eyes erano riusciti a raggiungere tra quanto costituiva il denominatore comune della canadian scene e la loro originale forma di schizofrenia. Per epicità, pienezza delle partiture, singolarità degli intrecci ritmici, audacia vocale, estro compositivo, complessità lirica, i Frog Eyes staccavano i compagni di viaggio (Sunset Rubdown, Wolf Parade, The New Pornographers, Destroyer, Swan Lake), dirigendosi verso quelle vette che a scalare, di solito, sono solo i maestri.
In questi tre anni è successo che Mercer, dopo aver collaborato al nuovo Swan Lake (Enemy Mine) e aver edito un lavoro a nome Blackout Beach (Skin Of Evil) tanto ostico quanto interessante per le sonorità più elettroniche e inquietanti, ha alimentato il desiderio di pubblicare un disco che sapesse di terra e di rock. La veste dei Frog Eyes, duttile e plastica come non mai, si è così prestata al nuovo bisogno di fisicità abrasiva di Mercer: lintero Pauls Tomb: A Triumph è stato registrato dal vivo, senza overdubbing e con un apporto minore, rispetto al passato, di synth e tastiere. Ne esce un disco fatto di materiale grezzo, di pasta grossa, di gain a mille e riverberi costanti, un disco che ricrea i consueti intarsi frenetici di riff e (anti)melodie in una forma più cruda rispetto a Valedictorian, e nel complesso meno efficace.
La scrittura di Mercer rimane esagitata e involuta, pindarica più per una naturale irrequietezza che per scelta: Mercer, che come Krug si ritrova una faccia da bimbone ciccioso un po canagliesco, si conferma un autore iperattivo e schizoide, che procede per asimmetrie e storture, arabeschi e contorsioni, successioni nevrotiche di pause e rilanci. Conta molto, direi, il suo stile vocale, sempre invasato e convulso, tendente, più che al canto vero e proprio, a una recitazione verbosa stimolata da qualche droga eccitante (alle volte, in certe pose drammatiche, sembra posseduto da Meat Loaf, che è tutto dire). Da cui una certa (voluta) indigeribilità, soprattutto dei pezzi dal minutaggio più contenuto, i quali, lasciando meno spazio a divagazioni strumentali, risultano quasi del tutto occupati dalla logorrea smaniosa di Mercer. Alla fine, ipnotizzati, si tende a perdere la cognizione di quanto accade sotto di lui, arrivando alla fine dellascolto con una tachicardia non propriamente piacevole (The Sensitive Girls, Rebel Horns, che pure è un brano niente male).
Gli immancabili pezzi-monster, inserendo i sermoni surreali di Mercer nei ritmi balbettanti e sciancati di Melanie Campbell e in spazi strumentali più distesi, appaiono più completi. Non sempre, però, come nel passato, fanno centro. Buona A Flower In A Glove (nove minuti di riff labirintici sbalestrati a destra e a manca), interlocutoria Styled By Dr. Roberts, cubista alleccesso Pauls Tomb. I picchi vanno cercati nellappassionata Odettas War (emozionante la sinfonia per organo e chitarre in coda), nellinattesa celestialità che chiude Lear In Love, cui giova la seconda voce della new entry Megan Boddy, e nelle campate più vuote e tetre di Violent Psalms (Xiu Xiu sullo sfondo).
Ecco: che i Frog Eyes riescano meglio dove lavorano per sottrazione significa che qualcosa non è andato per il verso giusto. Il plusvalore della lavorazione in studio, poco da dire, manca (assieme a qualche pezzo maestoso davvero), facendo intuire come il disco potesse essere pensato di più. Ma figurarsi se Mercer si ferma un attimo: è canadese...
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