V Video

R Recensione

7/10

Giardini di Mirò

Good Luck

Partiamo subito da un punto fermo, che spazzi via le nubi del dubbio dai terreni che stiamo per perlustrare: i Giardini di Mirò de “Il Fuoco”, opera del 2009 attorno alla quale unanimi furono le lodi di fan e critica, sono stati magnificamente episodici, eloquentemente caratteristici di un momento forse irripetibile. Il nuovo tragitto riparte da dove si era interrotto con “Dividing Opinions” nel 2007, divenendo ancora più minimale, oserei dire essenziale, avvolto da un sottile velo di foschia che rende meno riconoscibili i tratti somatici di coloro che lo percorrono. Sembra oggettivamente un’altra band quella di “Good Luck” rispetto a quella del lontano, indimenticato e indimenticabile esordio. Se non fosse per qualche giro di chitarra in grado di riportare mente e cuore indietro nel tempo, ad un ascolto “alla cieca”, si potrebbe azzardare che si tratti di una nuova, interessantissima, formazione. Ed in effetti, in qualche misura lo è, visti i vari avvicendamenti che hanno avuto luogo lungo la strada fra le fila dei Giardini di Mirò: l’ultimo di questi ha riguardato il ruolo di drummer che ha visto Andrea Mancin subentrare a Francesco Donadello (che comunque suona in sei degli otto pezzi del disco, contribuendo anche alla produzione).

Facili soluzioni climax/anticlimax o il ricorso a struggenti suggestioni non sono più di casa. La musica viene denudata da indumenti spessi e rivestita di quel poco necessario per delineare, immaginare un abito il più possibile aderente all’anima, coerente all’anima. Sicuramente l’ambientazione offerta dalla campagna emiliana, sospesa in panorami che svaniscono all’orizzonte, porta in sé una sorta di frugalità spirituale che penetra persone, facce, cose, storie, lavori, silenzi, musiche. E il suono dei GdM viene profondamente permeato da tutto ciò, isolandolo da tradizioni aliene alle proprie radici e, allo stesso tempo, ammantandolo di una luce diafana che trasfigura anche i luoghi più familiari, alterandone la fisionomia: è proprio ciò che accade in “Good Luck”.

L’ipnotica poesia di Memories, da interno giorno (un giorno di inverno caratterizzato da un uggioso senso di attesa), stabilisce le coordinate lungo le quali proseguirà il viaggio in questa stagione di ascolto. Spurious Love innesta una variegata ritmica capace di cadenzare l’indugio umorale al quale la musica induce, tratteggiando una melodia evanescente (alle backing vocals, qui e in Rome, troviamo Angela Baraldi), che la chitarra riconduce in qualche luogo a metà strada fra la parte più introspettiva di “Wish” dei Cure e le epifanie dei Piano Magic. Ed è sempre su paralleli immaginari che riportano a Robert Smith, stavolta tornando un pochino più indietro, che si dipana lo srotolarsi di note e di emozioni che personalizza Ride, che gode di un vibrante lavoro basso/batteria e di un riverberante “academic guitar-drifting”. Con la splendida ballad There Is A Place (cantata da Sara Lov dei Devics), si ritorna alle melanconie arpeggiate che ci avevano fatto innamorare del loro debut, ancora una volta elaborate attraverso il filtro emozionale della band di Glen Johnson (il leader dei Piano Magic era ospite in Self Help sul precedente “Dividing Opinions”). Una delizia per i sensi, la soave title-track (unico strumentale dell'album), odorosa di un sole di primavera e delle armonie dei Notwist: un tentativo riuscito di allontanarsi dall'architettura botanica dei Giardini di Mirò. Rome è un dialogo interiore lambito dai flutti dark-sentimentali del Nick Cave, quando ancora era un vate crepuscolare illuminato più dall’oscurità che dai riflettori della ribalta, scossa verso il finale da un rabbioso fremito che, opportunamente, ne sconvolge i lineamenti del viso. Time On Time stabilisce una fascinosa zona d’ombra dovuta ad una improvvisa eclisse di sole e ad una frattura spazio-temporale nella quale gli Yo La Tengo più corali si incontrano con i Neu e con le loro krautroniche motoritmie, rammentando un analogo esperimento messo a punto di recente dai Mogwai (ripescate Mexican Grand Prix dall’ultimo “Hardcore Will Never Die, But You Will”). Flat Heart Society (arguto titolo che gioca col nome dell'associazione che sosteneva la teoria della Terra piatta, spostando con una consonante il significato), è il momento più vertiginoso e dolente del disco, contraddistinto da uno ipnotico arpeggio di chitarra che cresce – per poi tornare a decrescere – con il passare dei minuti, da un canto quasi strozzato in gola e da un andamento sofferto e insonne, perfettamente interpretato dalle ritmiche, che conduce verso frastagliate aperture soniche: sublime davvero. Magari l'abbondante spazio residuo del disco – lo ammetto, ho una remora personale nei confronti dei CD al di sotto dei 40 minuti ('sti cazzi di quanto duravano una volta i vinili…) – avesse ospitato almeno un altro paio di brani di questo calibro. Ma è necessario esprimere un giudizio su ciò che c'è e non su quello che avrebbe potuto esserci.

Avendoli più volte visti dal vivo sin dai primi tempi della loro vicenda artistica, devo dire che ho sempre sperato che la veemenza sonica che i Girdini di Mirò immettono nei loro brani in contesto live lasciasse un segno talmente marcato nella loro "impostazione" al punto da incidere maggiormente in fase di scrittura. Invece in studio la band ha sempre continuato a perseguire modalità più composte che hanno portato a prediligere la forma-canzone (per quanto non propriamente assestata su canoni convenzionali), a scapito della indole più selvaggia ed istintiva della loro identità. In "Good Luck" l’asservimento dell’espressività emotiva alla compostezza formale raggiunge probabilmente il suo apice: in alcuni brani (prendete ad esempio Rome o Flat Heart Society) si sente chiaramente, specialmente nei minuti finali, come l'urgenza di questa componente meno incline a farsi imbrigliare rivendichi vendetta e reclami spazio. Paradossalmente, l'aver seguito e amato il percorso della combriccola che ruota attorno a Jukka Reverberi (voce, chitarra e basso) e a Corrado Nuccini (voce e chitarra), può costituire un ingombro di una certa rilevanza per godersi in santa pace "Good Luck", senza che la propria testa si aspetti altro: beati davvero coloro che si accostano a quest'album senza aver avuto il piacere di fare la conoscenza dei Giardini di Mirò, specialmente sotto un palco, in precedenti circostanze. In generale nell’album ritrovo una sorprendente vicinanza – stilistica più che emotiva – con gli intenti e i risultati conseguiti dai September Malevolence di “Our Withers Unwrung”, il loro ultimo lavoro in studio: una strana e sicuramente imprevedibile coincidenza sull’asse Svezia-Italia.

Ma non credo rientri nella “mission” di “Good Luck” di essere completamente messo a fuoco: pertanto nell’addentrarvi in esso, pena il mancato raggiungimento di un propedeutico stato meditabondo, dimenticate pure tutte le mie parole: piuttosto, offuscate la vista e aguzzate l’udito.

V Voti

Voto degli utenti: 6,5/10 in media su 2 voti.
10
9,5
9
8,5
8
7,5
7
6,5
6
5,5
5
4,5
4
3,5
3
2,5
2
1,5
1
0,5
rael 7/10
target 6/10

C Commenti

Ci sono 2 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
Effettua l'accesso o registrati per commentare.

Utente non più registrato alle 14:09 del 19 marzo 2012 ha scritto:

A chi può interessare, presenteranno il nuovo album il 21 marzo alla Fnac di Milano alle ore 18.00.

target (ha votato 6 questo disco) alle 12:58 del 7 aprile 2012 ha scritto:

Sono riusciti a diventare cosa diversa da quella delle origini, i Giardini, senza tutto sommato tradirsi. A me è capitato più volte, durante il disco, di sentire i suoni e le dinamiche di "Rise and fall" (più che di "Dividing opinions", direi), soprattutto nei pezzi che più mi sono piaciuti ("Spurious Love", "There is a place", "Flat Heart Society", che fa quasi Black Heart Procession) - mentre poco mi hanno detto cose come "Ride" o le divagazioni post punk di "Time on time" (non nelle loro corde). Il disco non è male, ma mi sembra il loro minore. Bella analisi di Stefano.