Julian Casablancas
Phrazes For The Young
Ora manca soltanto Nick Valensi. Poi tutti i cinque membri degli Strokes, ancora lontani, come band, dal voler dare un seguito all’incerto “First Impressions Of Earth” (2006), avranno pubblicato un album solista. Più prolifico e schiacciato sullo stile della band madre Albert Hammond Jr (“Yours To Keep”, 2006; “¿Come Te Llama?”, 2008), neghittosamente folk-rock il bassista Nikolai Fraiture (il disco “The Time Of The Assassins” sotto il nome Nickel Eye non è un granché), deliziosa nel suo mix di indie pop indolente e reminiscenze brasiliane la proposta parallela di Fab Moretti (i Little Joy essendo senz’altro, nel loro genere, tra le chicche dello scorso anno): tutti, tranne forse quest’ultimo, hanno dimostrato di saper deviare dagli Strokes solo per scarti negativi. Julian Casablancas, in tutto ciò, nicchiava. O meglio, lavorava nell’ombra a un disco che, nelle sue otto tracce ultra-ritoccate durante un lungo processo di labor limae, convince poco.
Il tentativo solista, anche nel suo caso, nasconde il desiderio di smarcarsi dalla gabbia stilistica strokesiana e di cercare maggiore libertà in territori diversi, giudicati inesplorabili in compagnia dei quattro band-mates. Casablancas, nel complesso, dimostra di avere idee discretamente coraggiose, tanto che uno dei risultati più felici del disco cade quando viene messa la maggiore distanza dallo Strokes-sound (“Glass”: mid-tempo sintetica che parte dalla Svezia dei The Knife per sfociare in un refrain arioso e in un assolo à la Queen che è quanto di meno strokesiano si possa immaginare). Il disco, tuttavia, pur nella sua brevità, sembra mettere troppa carne al fuoco, tanto da risultare un collage di bozzetti extravaganti, e almeno metà disco dà l’idea della sperimentazione personale che meglio sarebbe stata nei cassetti dell’autore (“Ludlow St.”, country-elettronica con solo di banjo, fuori sesto; “4 Chords Of The Apocalypse”, noia colorata di soul nero; “River Of Brakelights”, scuro electro-rock dove fanno capolino, nel barocchismo e in certi stiramenti vocali, i Muse).
La produzione, in parte affidata a Jason Lader (Maroon 5), in parte a Mike Mogis (Bright Eyes, Monsters Of Folk), tende a riempire all’eccesso gli spazi, dando l’impressione di indugiare nel riempitivo, anche perché tutti i brani, forse allo scopo di raggiungere un ragionevole minutaggio totale, sono stiracchiati all’eccesso. La sponda dell’elettronica, molto sfruttata, soprattutto con riconoscibili richiami eighties, funziona solo quando viene utilizzata in contropelo, su tonalità leggere da disimpegno spiaggesco (“Left & Right In The Dark” e lo schietto kitsch ‘80 di “11th Dimension”, tutto discolaggine retrò, chitarra e synth che citano i New Order più svagati), senza quei mascheramenti più ‘arty’ che sovraccaricano, ammosciandola, buona parte del lavoro.
Troppo e troppo poco assieme, dunque. C’è spazio per la speranza, però, perché l’unico episodio in cui Casablancas ricalca fedelmente il canovaccio strokesiano (“Out Of The Blue”) riesce bene assai, e l’effetto finalmente pulito della sua voce, se perde in zozza energia punk, ne guadagna però in incisività pop. Se un altro album a nome Strokes verrà, e se riprenderà le fila da qui, potremmo scoprire che la band newyorchese ha qualcosa da dire anche agli anni dieci. Qui intanto si traccheggia. Ad strokesiora.
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