Little Joy
Little Joy
Quando un italiano medio, immerso nell’accidia del suo dolce far niente, si mette a scorrere per noia la line-up degli Strokes, è inevitabile che si soffermi un nanosecondo in più, piuttosto che sui nomi iper-quotati di un Casablancas o di un Hammond jr, su quello così italianamente medio di Fabrizio Moretti. Chi è costui? Un calciatore dell’Albinoleffe? Un birraio? No, ovvio: è il batterista degli Strokes, per l’appunto. L’ometto riccioluto nascosto dai tom e dai piatti. Quello che usciva con Drew Barrymore. Quello, insomma: il figaccione (di padre italiano, ça va sans dire). Quello che ha dato vita, per diventare ancora più cool, a un side-project tutto da gustare.
Pare che Fab, come ama farsi chiamare, abbia conosciuto a un concerto di musica portoghese in quel di Londra tale Rodrigo Amarante, già membro dei Los Hermanos e collaboratore di Devendra Banhart (che qui ricambia il favore) in “Smokey Rolls Down Thunder Canyon”. I due, tra una birra e un porto, hanno partorito l’idea di un progetto musicale a tinte carioca (l’ho detto che la madre di Moretti è brasiliana e che lui è nato a Rio de Janeiro? Ce le ha proprio tutte, sì), lavorandoci con solerzia quando Amarante si è spostato a Los Angeles. Qui al duetto si è aggiunta un’amica di amici, la polistrumentista Binki Shapiro (mica male: ma sapete chi sta uscendo con lei? serve che ve lo dica?), e le canzoni sono cominciate a fioccare. Il nome della band, Little Joy, deriva da quello del bar dietro l’angolo dove i tre andavano a farsi un drink dopo le sessioni. Delizioso solo a dirsi.
E delizioso è il disco che ne esce, riuscita mescolanza di suggestioni diverse, dal garage rock alla tropicalia, dalla bossa nova al twee-pop, dal fado all’etno indie degli ultimi tempi. Il sound di New York trasportato a Lisbona. Tipo Vampire Weekend, per capirci, ai quali viene naturale accostare brani come “The Next Time Around”, dal colorito hawaiano (con ukulele!), e “No One’s Better Sake”, il cui attacco di mellotron e batteria tarantolata ha senz’altro qualcosa di “Mansard Roof”.
Gli undici pezzi sono brevi gioielli misteriosamente sospesi tra relax e malinconia, da ascoltare dondolandosi su un’altalena al mare o su una chaise-longue in veranda con un cocktail in mano. Un indie rock in bermuda, insomma, tanto che nei due minuti di “Keep Me In Mind” Amarante, debitamente effettato, rifà con sfacciataggine il verso a Casablancas, calandolo in spiaggia con la tavola da surf.
Ma la parte che eleva il disco sopra una godibilità da party è quella in cui emerge con più chiarezza il sostrato brazileiro: al di là del sognante fado che chiude il disco in portoghese (“Evaporar”), spiccano “With Strangers”, duetto melò di chitarra e piano sopra cui si distende un’elegiaca melodia invecchiata dai cori come un vino, e “Don’t Watch Me Dancing”, cantata dalla Shapiro: la sua voce di ceramica e come un po’ indolente (diciamo: sensuale/assonnata) rende ancor più adorabile questo ninnolo retrò in tre quarti dal sapore tropicale. Mancano passaggi deboli. Si susseguono, anzi, momenti davvero squisiti, dallo swing di “Brand New Start” ai quadretti vivaci di “How To Hang A Warhol” e “Shoulder To Shoulder”, all’intimismo poetico di “Unattainable”.
Disco da avere. Cosa ci si poteva aspettare, d’altronde, da uno che si fa chiamare Fab?
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