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R Recensione

8/10

Local Natives

Gorilla Manor

La globalizzazione è ormai completa, almeno quella musicale. È questo il primo pensiero che mi ritrovo a fare non appena ascolto Gorilla Manor, il debutto dei Local Natives. Sfido chiunque ad ascoltare Wide Eyes, brano d’apertura del disco, ed indovinare che questi cinque giovani musicisti sono nientemeno che californiani. Eppure un arpeggio così dolce e melodico non lo si sentiva dai tempi d’oro dei Cranberries, certo col passare dei minuti i nostri somigliano sempre di più ai compaesani Death Cab For Cutie, ma con una pulizia ed uno stile da veri mods.

Il discorso cambia totalmente per la successiva Airplane. Diciamolo subito, un mezzo capolavoro. Un brano carico di pathos, eppure semplice e diretto. Deliziosi cori, si alternano allo speciale cantato di Taylor Rice, per l’occasione straordinariamente vicino al compianto Jeff Buckley.

La bucolica Sun Hands, coi suoi coretti e le sue chitarre spiccatamente seventies, sposta il tiro verso gruppi quali Fleet Foxes, Acorn e Megafaun anche se l’attitudine british dei nostri li separa concettualmente da un certo folk/rock tutto barba e camice a scacchi.

Impressione ancor più rafforzata dalla successiva World News, una brillante ballata agreste (degna dei Band of Horses più ispirati) che pian piano vira oltreoceano tingendosi delle varie sfumature del pop e del glam.

La drammaticità di Shape Shifter ribadisce, per chi non lo avesse ancora capito, l’immenso amore dei nostri verso la band di Ben Gibbard, mentre l’elettricità della successiva Camera Talk ci mostra una faccia inedita dei cinque californiani: una specie di Arcade Fire e Clap Your Hands Say Yeah in salsa dandy.

A “Cards & Quarters” spetta invece la menzione come brano più originale del disco, dove le influenze vanno dai C.S.N. & Y fino ai Fugees, infatti il pezzo galleggia magicamente tra cori, arpeggi e R&B.

L’unica cover del disco, una Warning Sign deliziosamente schizofrenica, non poteva che appartenere ad un gruppo come i Talking Heads, la band angloamericana per eccellenza, cuore americano e mente britannica (David Byrne).

Arrivati alla compassata e romantica Who Knows Who Cares ci si accorge dell’enorme qualità di un disco che non si concede pause come conferma la successiva Cubism Dream, dove Taylor Rice risfodera per l’occasione un toccante falsetto alla Buckley. Spetta alla corale Sticky Thread chiudere il disco, cinque voci che si fanno una sola. Per raggiungere una tale sinergia i cinque dividono un appartamento a Orange County, una moderna comune di giovani (anglo)americani per l’appunto.

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Voto degli utenti: 7,4/10 in media su 5 voti.
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target 6/10
REBBY 7/10

C Commenti

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REBBY (ha votato 7 questo disco) alle 10:56 del 5 marzo 2010 ha scritto:

Un ottimo debutto, si han fatto un buon disco,

tra i migliori americani dello scorso anno.

Mancano clamorosamente dalla top ten del Fab eheh

fabfabfab (ha votato 7 questo disco) alle 21:40 del 5 marzo 2010 ha scritto:

RE:

Ahaha, Rebby non ti avevo letto! Ma sono così prevedibile?

fabfabfab (ha votato 7 questo disco) alle 21:39 del 5 marzo 2010 ha scritto:

Sono d'accordo gran bel disco passato inosservato. Siete ancora tutti in tempo per recuperare. Bravo Patrizio!

hokusai (ha votato 8 questo disco) alle 12:45 del 14 giugno 2010 ha scritto:

gran bell'eseordio