Los Campesinos!
We Are Beautiful, We Are Doomed
I contadini del Galles tornano nei negozi con un secondo cd di inediti dopo soli otto mesi da Hold on Now Youngster (2008) che grande entusiasmo ha suscitato in campo indie e non solo.
A sapere che i ragazzi suonavano a Cardiff (se un computer ha le casse fuori uso leggi le informazioni di MySpace senza curarti dell’audio) c’era da immaginarsi rabbia melanconica o folk-punk da miniera; invece l’apparente spensieratezza e vivacità che permea i Los Campesinos!, dopo aver stupito con il successo d’esordio, non viene a mancare nemmeno stavolta.
Siamo davanti a un lavoro che porta avanti il discorso iniziato sul web e nel mondo studentesco gallese, rapidamente asceso al circuito internazionale. Sono sette ragazzi che hanno fatto innamorare buona parte della critica e non pochi fan.
Certo se uno si aspetta che rompano tutti gli schemi, saltando continuamente e irrompendo in ogni dove, rischia di ritrovarsi deluso. La linea è decisamente continua e anche se il tutto si fa più definito e acquista una direzione più chiara non ci sono sostanziali novità. È pur vero che il tempo materiale per un cambio di clima creativo non c’è stato, ci voleva un genio fortunato - come il compagno di classe che non ha studiato Catullo e si inventa un collegamento tra un carme latino e Il Vecchio e il Mare. Pazienza si dirà, almeno non hanno riproposto scarti e inediti. Vero, ma un minimo di rammarico, sullo sfondo, è inevitabile.
Da un folk senza artigli a una piacevole agitazione musicale, tutto resta dentro a un clima britannico, anche perché del gruppo (giustamente) nessuno è gallese, ma al massimo russo. Così resta facile rendersi conto che un pizzico di follia (positiva) non manca di certo. Tanto che a concentrarsi sui testi si vede bene che la solarità di superficie nasconde tutt’altro spirito d’animo. Forse è questa capacità di restare sopra le righe pur non perdendo il contatto con la realtà che incuriosisce e attira.
Synth, violini e chitarre buone tanto per i blog d’underground quanto per Virgin Radio Italia. Non è un modo per dire né carne né pesce, non strumentalizziamo. L’edizione “materiale” del disco (più che curata e in limited edition) potrebbe spingere a arricciare il naso; già cascati nel marketing? Ai contenuti và la sentenza.
Violini, pianoforte e ritmi scanditi con grande spensieratezza accompagnano le canzoni, incorniciando lo scambio di voci maschile/femminile che sicuramente dà molto dell’effetto d’insieme.
C’è ancora molto (troppo?) degli Architecture in Helsinki (soprattutto The End Of The Asterisk), mentre restano passaggi che richiamano ai Sonic Youth e in generale a tutto l’universo indie, del quale si ritrovano il ruolo di “riassunto generale”., seppure forzato da alcuni critici/fan.
Il pericolo è lasciarsi prendere troppo dall’entusiasmo, sopravvalutando la parte nuova su quella influenzata e dedotta. Il rischio è bruciarli. Questa seconda uscita è decisamente rincuorante, perché tiene la barra ferma e solida, ma non riesce ad andare troppo in là dal punto di partenza.
Una sufficienza più che piena, a metà tra il 6 e il 7 è il voto, per quanto possa valere un numero rispetto a un’emozione.
Un gruppo affiatato, che si diverte e fa musica per il gusto di farla, senza copiarla. Pronti a lasciare il segno, per adesso si limitano a rimarcare (seppur con più forza) quello precedente.
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