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R Recensione

6/10

Metric

Art Of Doubt

Ci è voluto più tempo di quanto era stato inizialmente previsto, ma alla fine la promessa è stata mantenuta: alla soglia del ventennale d’attività, e con qualche sgradito leak di troppo alle spalle, i Metric hanno completato la rotazione attorno alle vestigia dell’indie, superando a destra mode e correnti per riaffacciarsi su ciò che rimane della musica con le chitarre. Tanto “Pagans In Vegas” si proponeva come definitivo exploit elettronico, insomma, quanto “Art Of Doubt” si riaffida al senso di Emily Haines per la new wave old style: strumentazione classica, pezzi classici (e pure tanti: dodici, per quasi un’ora complessiva, come mai prima d’ora), riff di chitarra classici, pattern ritmici classici. Appetibile e commercia(bi)le finché si vuole, ma questa formula avrebbe sbancato a mani basse i botteghini dieci anni fa. Una decade è pur sempre una decade. È più l’esigenza insopprimibile di sentirsi finalmente liberi o la voluttà di spolpare la carcassa sino al midollo?

Pregevole, come sempre, il background intellettuale cui si appoggia, a mo’ di concept, il disco: al centro della riflessione del quartetto canadese si pone l’opera del sociologo tedesco Ulrich Beck, catturata nella delicatissima convergenza di una contemporaneità che ha spinto così in là la superficiale esaltazione del “lume” da soccombere sotto il contraccolpo (crescenti dubbi e insicurezze esistenziali da una parte, denigrazione dell’istituzionalità dall’altra). È probabilmente questo il filone tematico più attuale di sempre per i Metric, che – divisi storicamente tra underground e lustrini, tra ribalta e backstage, anelito al successo ed orgogliosa indipendenza – scelgono di affrontarlo in un’ottica non ottimale, e anzi quasi bipolare, di carburazione crescente. A quel singolone formato Yeah Yeah Yeahs di “Dark Saturday”, focalizzato ancora una volta sull’aspetto catartico del processo creativo (“Forever and never / A torch in search of a flame / To be good, get better / Well I’ve been feeling this way / Forever and never / A night in search of a day / As anxious as ever / It’s such a dark, dark, dark Saturday”: quasi lynchiano), si oppongono prima le iperarrangiate frivolezze glossolaliche di “Love You Back” (echi di arena, di Maroon 5), poi il synth rock dalle ambizioni sociali di “Die Happy”: nulla di significativo. Per attendere una minima scossa bisogna passare attraverso episodici simulacri indie rock (bella la solida chitarra puntinistica di James Shaw in “Underline The Black”, che riesuma belle pagine della scuola canadese), farsi sorprendere da nuove versioni di grandi classici (il ritornello di “Risk” ricalca palesemente quello di “Sick Muse”, ma l’epica progressione di synth nel post-chorus rapisce ancora), cullare da lenti di gran classe melodica (“Seven Rules”) e saltare su rustici wave-punk à la Blondie (“Holding Out”), riservando infine il gran finale ad un plumbeo dramma interpoliano di grande intensità (la title track).

Tutto ciò che può essere detto sui Metric fa ormai parte, da tempo, del fondo dei luoghi comuni. “Art Of Doubt” non sposta una sola carta in tavola: quello che si limita a fare è proporsi come onesto disco di genere, scritto ed interpretato da maestri consumati, il cui solo difetto è non sapere mai fino in fondo quando fermarsi (e difatti i due brani maggiormente prescindibili, la synth-wave a cassa dritta di “Now Or Never Now” e l’algido carosello di chiusura di “No Lights On The Horizon”, sono contestualmente anche quelli più lunghi). Per il resto, nel bene e nel male, si va ormai a botta sicura.

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